Un rivoluzionario chiamato Pancho, di Paco I. Taibo II
Doroteo Arango, in arte Pancho Villa
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Alla fine della lettura di questa monumentale biografia di Paco Ignacio Taibo II, è necessario chiudere gli occhi, prendersi una pausa dalla vita per trovare finalmente requie: di troppi sentimenti, gesta, persone, è difatti ricca la storia del famigerato Pancho Villa.
Già: chiudere gli occhi, si diceva; ma per troppe persone il gesto naturale e vitale di abbassare le palpebre ha significato, negli anni della rivoluzione messicana, il terrore di veder risorgere lui, Pancho Villa, alla guida della leggendaria Division del Norte .
Ma chi era Pancho Villa? Ed ecco che il bardo cieco riacquista la vista del mito, lo scrittore indomito rispolvera la nervatura della leggenda.
1894, stato di Durango, Messico. Il torto subito s’incarna nelle fattezze di un giovane mezzadro che, tornato a casa dal lavoro, vede l’onore di sua sorella minacciato dal potente don Augusto Lopez Negreta.
Doroteo Arango, all’epoca degli eventi troppo insignificante per sostenere il peso del Pancho Villa che diventerà, spara. E lo sparo lo condannerà alla macchia.
Per 17 anni dei 30 vissuti prima di partecipare ad una rivoluzione, era stato un fuorilegge: ricercato dalla giustizia, bandolero, ladro di bestiame, brigante.
Finalmente, poi, l’incontro con Francisco Madero, la Rivoluzione, la Storia; e, soprattutto, la scoperta della sua missione: lotta senza quartieri, massimamente con azioni di guerriglia, alla dittatura che nel corso degli anni si incarnerà in diversi personaggi e presidenti.
Nascerà il Pancho Villa stratega geniale che, pur (troppo spesso) con un equipaggiamento raffazzonato, riuscirà ad elaborare strategie sì raffinate da suscitare l’ammirazione degli osservatori internazionali. Lo stesso comandante irriducibile che, per la prima volta nella storia, violerà il sancta sanctorum del capitalismo americano con l’attacco a Columbus, nel New Messico.
Si formerà, poi, il Pancho Villa uomo: capace di attacchi di collera feroci ma anche (e soprattutto) di slanci di generosità e disinteresse tali da mettere in crisi qualsiasi topos dell’eroe positivo.
Pressoché illetterato, fonda ben 50 scuole in un solo mese da governatore dello stato di Chihuahua, persuaso che gli insegnanti debbano essere pagati di più dei guerriglieri.
Convintamente astemio in anni e ambienti di fegati allevati a sotol (bevanda nazionale di alcuni stati del Messico) che più di una volta ha appannato la lucidità dei suoi uomini.
Amante instancabile, capace di risolvere un matrimonio (uno dei tanti) non più gradito con il semplice strappo del certificato matrimoniale e purtuttavia rispettoso dell’universo femminile.
Pancho Villa, uomo diffidente fino allo stremo che era solito svegliarsi in un luogo quasi sempre diverso da quello scelto per addormentarsi, che prima di uscire di casa esigeva che venissero spente le lampade per non stagliarsi in controluce, che infine prese l’abitudine di nascondere piccoli e grandi tesori, comunque impiegati per l’azione rivoluzionaria, in posti improbabili conosciuti solo da lui.
E poi, quasi come se anche Essa potesse diventare un dettaglio al cospetto di una biografia così illustre e ricca, ecco la Storia esigere il suo tributo di vicende e personaggi: per intenderci, il Pancho Villa che conquista numerosi stati del Messico (Torreon, Ciudad Juárez, Ojinaga, Città del Messico), che si allea con Emiliano Zapata condividendo con lui il progetto di una grande riforma agraria (piano di Ayala, 1911), che lotta contro Diaz, Orozco, Huerta, che viene braccato inutilmente dalla Spedizione punitiva americana con corredo di cospicua taglia.
Nell’età della (parziale) disillusione, ecco il Pancho Villa versione Cincinnato. Caduto Carranza (1920), Villa depone le armi, ottenendo dal presidente de La Huerta, oltre alla garanzia di uno stipendio per i suoi compagni d’arme, l’azienda di Canutillo, ben presto trasformata in un funzionale villaggio dotato di elettricità, scuole, ufficio postale, sempre pronta a dare ricovero e riparo a chiunque, animato dalla volontà di mettersi al servizio della comunità, ne avesse fatto richiesta.
Alla fine della corsa, nel 1923, vi è l’assassinio di Pancho Villa che, intento a lavorare di frizione e di cambio, viene raggiunto dalle raffiche della cospirazione mentre cerca di far uscire la sua Dodge dalla buca in cui si è impantanata.
Gli esecutori che vanno via indisturbati, le truppe della guarnigione di Parral assenti proprio nell’occasione dell’agguato, numerosi indizi sul coinvolgimento del presidente Obregon e dei suoi accoliti, la magistratura che impiega ben 9 giorni per aprire l’inchiesta. Affastellamento di dati, questi, che denunciano una congiura per un personaggio che, pur ritirato a vita privata, è comunque un ostacolo alla politica dell’interesse e del sotterfugio.
Così, tanto per aggiungere una nota di colore, c’è una testa, quella del generale Pancho Villa, che viene spiccata dal corpo e viene trovata in giro per il Messico, ora qui ora là, pronta ad alimentare l’ennesima leggenda.
Basta chiudere gli occhi: ed ecco il generale Villa, magari decollato, che al grido di Viva Villa della Division del Norte, attacca indomito la canaglia intenta all’ennesimo sopruso; pronto, il nostro Pancho, a ridersela sotto i baffi anche del Villa morirà di morte naturale a 90 anni…ha una fortuna sfacciata e le pallottole non lo raggiungono profetizzato dal compagno Felipe Angeles.
Paco Ignacio Taibo II è un vulcano portatile, una pentola a pressione senza la sicura, la viva immagine di ciò che i nonni pensavano fosse un libero pensatore. I suoi romanzi sono urbani, secchi duri. La sua scrittura, come un gancio alla mandibola.
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