Il Collezionista Di Carte: Schrader e le ossessioni cinematografiche
Ne “Il Collezionista Di Carte”, Paul Schrader immette quelle che sono tutte le sue idiosincrasie. E così prosegue il suo percorso filmico
C’è ancora, nel cinema, la tendenza a non trascurare, e anzi a mettere in evidenza, una certa componente autoriale che distingue ancora registi e registi. All’alba degli anni ’20 del ventunesimo secolo, tutti si sarebbero aspettati un taglio netto nei confronti del cinema del passato. Cosa che in parte è avvenuta. Molti grandi nomi sono come svaniti. Lo stesso non si può dire di Paul Schrader, che sbarca al cinema in questi giorni con il suo “Il Collezionista Di Carte“.
Il film è stato presentato a Venezia durante questi ultimi giorni alla 78a Mostra omonima, che ha riservato molte sorprese, ed è in concorso per l’ambito Leone d’Oro. Un film che in molti aspettavano, con un hype davvero alto. Aspettative che non sono state minimamente tradite, in quanto ci troviamo di fronte ad una delle migliori opere del regista di “American Gigolò“. “Il Collezionista Di Carte” è un film che si prende i suoi tempi, che indaga e pone al centro ancora una volta l’essere umano e la lotta con sé stesso.
Soprattutto, però, è il tentativo di spiegare a tutti il famoso “cuore di tenebra” targato USA che caratterizza l’american way of life. Uno stile di vita che nasconde una semplice facciata, che tenta di riprendere gli stilemi classici del regista sceneggiatore di Taxi Driver e di aggiornarli ai canoni odierni. Canoni che sono ripresi con forza, senza per questo però snaturare ciò che c’è alla base. Se c’è una cosa che Schrader riesce a fare in scioltezza, ogni volta, è rinnovare il proprio discorso in modo da restare coerente con la sua idea di cinema.
Ed è inutile dire che, anche in questo caso, gli spunti sono clamorosamente interessanti.
Il giocatore
“Il Collezionista Di Carte” racconta di un gioco di sopravvivenza, di un tirare a campare in una (vana) speranza di un futuro vivido. Ma soprattutto parla di William Tell (uno splendido Oscar Isaac), la cui vita è legata a doppio filo con le carte e con il suo passato. Lui è un giocatore d’azzardo professionista che cerca di guadagnare tramite partite di poker, gioco in cui è diventato un maestro.
Ma soprattutto è un ex carceriere che prestava servizio nell’ex penitenziario di Abu Ghraib, in Iraq. Proprio la sua “durezza” gli è costata ben otto anni in prigione a causa delle violazioni dei diritti umani di cui si è macchiato. Una volta uscito, diventa un mito del poker sfruttando il metodo del conteggio delle carte. Cambia sempre dimora, cerca di non creare legami affettivi con nessuno.
Tutto finché la sua quotidianità non si incrina, un giorno, a causa della proposta d’affari proveniente da La Linda (Tiffany Haddish). Lei è una scouter alla ricerca di nuovi assi del poker. In più, si palesa un altro inconveniente. Quest’anomalia è rappresentata dal giovane Cirk (Tye Sheridan). Lui è un ragazzo intento a vendicare il suicidio del padre, il quale è stato anche lui un torturatore di Bagram. Quest’ultimo è stato sottoposto al duro allenamento dello stesso istruttore di Tell, ma non ha retto alle pressioni e si è suicidato.
Ed ecco che William si offre per diventare mentore di Cirk. Ma il passato tornerà a tormentarlo, portandolo ad un gesto estremo.
La cara Nuova “Vecchia” Hollywood e Bresson
“Il Collezionista Di Carte” è una partita già giocata con il destino. Schrader delinea la “vendetta” del suo Tell in modo progressivo e interiore, senza giocare con particolari eccessi di foga. Se c’è una cosa in cui lo sceneggiatore di “Taxi Driver” riesce benissimo, ogni volta, è rinnovare il proprio discorso in modo da restare non solo coerente con la sua idea di cinema, ma ri-aggiornarla agli stilemi attuali. Ed è ciò che il suo nuovo film palesa.
Un cinema fatto di sconfitti, di “loser“, condannati fin dall’inizio, che si arricchisce di questo nuovo tassello. Il William Tell di Oscar Isaac è sospeso tra voglie eroiche (rese note anche dal nome stesso del protagonista) e la voglia di espiare le proprie colpe. Quello di Schrader è, in fin dei conti, un falso biopic che rinnova la sua vena esistenziale. E riesce perfettamente a scandagliare la psiche tormentata di un uomo alienato. Quest’ultimo è consapevole di essersi rifugiato nelle sue ossessioni per sfuggire ai veri tormenti della vita, derivati tutti dai patemi della Guerra.
Proprio per questo, “Il Collezionista Di Carte” è un film che racconta perfettamente tutto ciò che è stato Schrader e tutto ciò che probabilmente sarà. All’interno vi sono tutti gli stilemi classici del suo cinema. Ancora una volta si mira a Bresson (soprattutto nel finale del film, che guarda palesemente a “Pickpocket“) per rinforzare la propria poetica e per raccontare il “lato oscuro” del sogno americano.
Il sogno che è una sorta d’illusione, per il regista, in cui l’America rovina in modo devastante i suoi cittadini tramite le guerre (e qui, naturalmente, il pensiero va in automatico a “Taxi Driver” e alla Nuova Hollywood). Per gli americani resta, dunque, solo l’alienazione sociale, l’emarginazione, l’annullamento e la solitudine, alla ricerca di una redenzione che può essere solo personale.
La vita di Tell, dunque, ci racconta anche di chi si rifugia nelle proprie ossessioni per sfuggire ai veri tormenti della vita. E, da questo punto di vista, le analogie con il Vietnam e il cinema degli anni ’70 sono assolutamente certificate.
L’estetica radicale
Anche esteticamente, “Il Collezionista Di Carte” si affaccia palesemente ai dettami del cinema di Scorsese. Schrader è un altro dei reduci degli anni ’70 americani, e il suo cinema d’origine si avverte tutto quanto qui. Infatti, il film oscilla benissimo tra il noir più fascinoso (con la figura di Oscar Isaac che sembra anche “maledetta” come la maggior parte dei protagonisti della Nuova Hollywood) e il dramma interiore e psicanalitico, arricchito anche da un impegno sociale per nulla velato e da stilettate all’ideale del superomismo americano che, per l’ennesima volta, fa capolino.
Al contempo, oltre a sfoggiare un’estetica invidiabile (soprattutto dal punto di vista fotografico), la regia incomincia a prendere la forma delle ossessioni dell’americano. Ci ritroviamo di fronte a delle inquadrature ritualistiche, religiose (citate a più riprese, un esempio rapido ne è la sequenza finale che inneggia allo sguardo pittorico di Michelangelo), che tallonano il protagonista con la macchina da presa. La rievocazione “dreyeriana“, spirituale, del resto, è solo un’altra idiosincrasia del suo cinema. Schrader è però bravissimo a spezzare il rigore formale tramite riprese in fish-eye deformanti e tramite montaggi in dissolvenza che restituiscono anche il carattere psico-labile del protagonista e che gli permettono di variare.
La gestione del ritmo resta calibrata e rigorosa, in grado di infondere tensione e allo stesso tempo di esplodere di violenza pur restando anti-spettacolare. Splendido anche l’utilizzo delle luci, con una fotografia che trattiene i suoi colori, per poi esplodere in eccessi al neon che sembrano provenire da un film di Refn. Anche le scenografie e gli interni sono curatissimi, eleganti al punto giusto, tali da non risultare mai patinati.
Dunque, la parte tecnica diventa un mezzo per capire la radicalità di un cineasta splendido. Ma “Il Collezionista Di Carte” è anche la prova formidabile di un attore che è stato praticamente il mattatore del Festival di Venezia, con ben tre film in concorso: Oscar Isaac.
Oscar Isaac e la figura tragica
Il cinema di Schrader è, come sempre, popolato da figure tormentate, ai limiti della tragedia greca, la cui parabola è designata fin dall’inizio. Sono degli anti-eroi afflitti dalle proprie colpe, che tentano di sfuggire ad un Inferno in cui, però, sono condannati a restare e a vivere. E, proprio per questo, probabilmente il regista non poteva trovare controparte più adatta di Oscar Isaac.
Come racconta anche il nome del suo personaggio, Isaac è un Guglielmo Tell. A dir poco formidabile nell’esprimere la sua condizione rassegnata, nonostante la sua apparente impassibilità. La sua è un’imperscrutabilità nascosta benissimo tramite espressioni fredde, dolenti, che rendono più misterioso e affascinante il personaggio di William Tell (nomen omen, non a caso), ma che in ogni caso riesce a far trasparire il gioco della vita. Un personaggio sofferente e alienato.
Bravissima anche Tiffany Haddish, ottima spalla fascinosa, a mo’ di vecchia diva. Una donna sospesa a metà tra la classica femme fatale misteriosa e la voglia di dire la sua e stare dalla parte dei giusti. Chiude il cerchio Tye Sheridan, che sembra uscito da un teatro dell’assurdo di “brechtiana” memoria. Il suo personaggio è costretto ad allontanarsi, come Tell, dalla propria anima per sopravvivere. Un segno di maturità recitativa assolutamente inequivocabile.
Ottima anche la performance di Willem Dafoe, una garanzia in ruoli più ostici e sfaccettati. L’attore riesce a donare ambiguità e spessore al suo generale Gordo. Simbolo di una morale completamente persa, della cessione alle tentazioni del diavolo, in un mondo dove però la salvezza è incerta e segue vie ignote.
Questo è Paul Schrader, prendere o lasciare.
VOTO FINALE: 4.5/5 DESCRIZIONE: Schrader crea un nuovo bellissimo falso biopic esistenziale che riesce perfettamente a dare corpo all’alienazione e che rinnova le sue classiche ossessioni cinematografiche di sempre in modo splendido ed esemplare. Da vedere assolutamente. | ||
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