9 Febbraio 2016 - 13:54

L’abbiamo fatta grossa…a non capire Carlo Verdone

l'abbiamo fatta grossa

Pareri contrastanti sull’ultimo film di Carlo Verdone, L’abbiamo fatta grossa, dividendo la critica. Quali sono i punti deboli quando il cinema italiano è crisi della forma?

[ads1]Ci sono autori che fanno parte dell’immaginario personale, spesso anche collettivo, perché hanno assorbito ed espresso nevrosi riflesso di una società che dà l’impressione di mutare, mentre offusca un sistema di valori che è arrivato a noi solo attraverso i racconti di altri, ma che mai è stato veramente vissuto. Carlo Verdone rappresenta, almeno nella coscienza di chi scrive, un uomo e tanti personaggi, un’anima e tante disperate anime alla ricerca di un senso, del valore delle cose. L’abbiamo fatta grossa è stato ampiamente argomentato dalla critica, che ha dichiarato apertamente una certa delusione, o un altro appuntamento al cinema con un Verdone che continua a perdere colpi, che si sta sottovalutando. Qualcuno invece, ha rintracciato nella serie di equivoci e attraverso la strana coppia Verdone/Albanese un certo equilibrio, una sana nostalgia verso qualcosa che non si riesce a definire.

abbiamo fatta grossa In sostanza però, prima di arrivare ad una conclusione sul valore complessivo del film, non si può non pensare a Carlo Verdone nella sua interezza; figura speculare alla commedia all’italiana, portando nel passato ad una rivalsa della commedia dal tono tragicomico e dalla venatura nostalgico-sentimentale, ma che parallelamente, sta vivendo la crisi della scrittura, del linguaggio e della comicità passando ad un tono che non convince, che fa del ridicolo e dell’assurdo le due componenti da cui scaturisce la nuova comicità.

Con L’abbiamo fatta grossa Verdone esprime, secondo la mia personale interpretazione, una certa onestà intellettuale attraverso una costruzione narrativa e metalinguistica tale da trasformare i tanto acclamati punti deboli in un’istanza autoriale, che si rivolge ad uno spettatore che cerca di andare oltre il materiale narrato e scoprire che la crisi non è nelle idee, ma è crisi della rappresentazione.

Aspirante sceneggiatore (Arturo Merlino), ma che continua a vivere con una zia schizofrenica e con un’attività che oscilla tra il grottesco e il surreale (per la resa del personaggio), s’incontra per caso (o forse il caso li fa incontrare) con Yuri Pelagatti (Antonio Albanese per la prima volta accanto a Verdone), attore di teatro in un profondo smarrimento artistico. I due risultano segnati da un legame interrotto, bruscamente, con le rispettive mogli e i rispettivi figli. È dunque l’arte il nocciolo del film: contenitore della vita che non sa raccontarla, personificarla, rappresentarla se non è pieno. L’arte è la forma, la parte esteriore che si alimenta di ciò che l’autore sta vivendo, espressione del contenuto che la ispira.

abbiamo fatta grossa Tornando al film, L’abbiamo fatta grossa è una prova particolare in cui il regista e comico Carlo Verdone prova il trapasso da quella sua commedia riconoscibile, e immaginario collettivo, verso la graduale dissoluzione. Sembra che sia capitato ciò che la storia del cinema ci insegna, quando dalla commedia degli anni ’60 dal ritmo perfetto, costruita su una scrittura solida e innovativa, calandosi sempre con maggiore interesse e senso di denuncia nella realtà sociale, politica e cultura del Paese, subisce un processo di smaltimento della comicità per accentuare i toni noir, drammatici, surreali che enfatizzano la volgarità e la degenerazione di un sistema ormai corroso dal profondo.

È come rivedere una storia già vista, eppure Verdone tenta un nuovo approccio con il suo pubblico, quello di ieri e – probabilmente – quello di oggi.

Dettagli che sono caricature (come i due giovani che correggono Arturo sulle sue lacune geografiche, essendo eterni viaggiatori e vacanzieri eppure privati dal dialogo nella coppia – scena alla Trattoria Tevere), e poi i tre elementi su cui ruota il film: il denaro, la crisi della famiglia, la crisi dell’arte; fattori che si possono invertire tra loro perché il risultato non cambia.

Personaggi complessi, che nascondono un’identità o che hanno rinunciato di raccontare; sono il risultato delle loro azioni, ed infatti l’agire è un’altra componente narrativa che indirizza gli attori e scalfisce quelle interiorità tormentate da un “oggetto” perduto. L’oggettivizzazione dei sentimenti, dei rapporti umani, degli obiettivi, della morale. Tutto ruota intorno a quella valigia, e diverse sono le scene che scaturiscono dalla difficoltà (impossibilità) di cambiare una banconota di 500 euro: l’unica in possesso da parte di Arturo e Yuri, prelevate segretamente.

La crisi dell’Italia si legge appunto anche da quest’espediente comico, che racchiude tutto il tragico mondo che circonda i due sventurati.

La famiglia, per chi ricorda Una vita difficile di Dino Risi, è uno stereotipo che necessita di stabilità economica e di una posizione sociale stabile, per garantirne la sopravvivenza. Sia Arturo che Yuri sanno che senza il denaro non avranno mai un ruolo all’interno della famiglia; sono i percorsi poi, quelli introspettivi dei personaggi, che si contrappongono alla volgarità del linguaggio, alle parolacce inflazionate che si ripetono troppo spesso fino a stonare con il senso nostalgico del film.

Questa nostalgia di Verdone che cos’è?

Nostalgico Verdone lo è sempre stato. Questa volta però ha nostalgia del suo “mestiere”, del suo cinema, della sua autorialità. Affiancarsi un attore, un interprete come Antonio Albanese, può significare qualcosa di più ricercato. Molto simili, i due però presentano delle diverse caratteristiche: se Arturo tenta di rincorrere un comportamento morale (come nel primo tempo lascia percepire), gradualmente l’incontro con l’altro simile a se stesso, ma comunque un altro da sé, comporta un confronto e una compenetrazione di apatia e totale disinteresse rispetto gli altri, concentrando ogni azione verso uno scopo individuale.

abbiamo fatta grossa

Scena tratta da L’abbiamo fatta grossa

Il percorso che compiono insieme costituisce la dimensione fiabesca del film, quando le assurde coincidenze portano i due attori di fronte ad una prova da superare. La fiaba termina quando la realtà dimostra che il potere struttura la coscienza sociale, stabilendo come e quando comprometterla. Sarà nel carcere, dove finiranno i due pur se apparentemente innocenti, in cui si potranno davvero realizzare ed esprimere. L’arte, dunque, è catarsi per Verdone, perché eleva ogni singolo personaggio. 

Anche Lena (Anna Kasyan), il soprano che invece lavora al bar, è l’unica che saprà calarsi nella dimensione creativa di Arturo, diventando la protagonista.

C’è nostalgia dell’arte in L’abbiamo fatta grossa, nostalgia del buon senso, della forma adeguata, del passato che rimane sempre nell’ispirazione. Omaggi, citazioni, rimandi. Carlo Verdone ci lascia l’amaro in bocca soprattutto perché è amara la sua constatazione della realtà italiana, dal gelataio al regista, assuefatti all’ormai crisi economica e disillusi di fronte all’incapacità di raccontare l’epoca con un linguaggio nuovo, una forma purificata dal passato.

Ma in fondo senza tradizione, scatto comico rispetto all’evento, nevrotica reazione di fronte al malessere psicologico e sociale, senza “pernacchia” alla sistematica presa in giro dai più forti, non sarebbe Carlo Verdone.[ads2]