Baby: l’adolescenza torbida con sfondo i Parioli
Baby, serie targata Netflix, è la fiamma che lambisce le zone buie di un ricco quartiere della Capitale. Le ragazze vogliono davvero solo divertirsi?
Baby è approdata su Netflix lo scorso 30 novembre, calamitando l’attenzione del grande pubblico. La nuova produzione italiana affronta un tema particolare, vomitato dalle più controverse pagine di cronaca della Capitale: la prostituzione minorile.
La trama
Chiara (Benedetti Porcaroli) e Ludovica (Alice Pagani) si conoscono tra i banchi del liceo. Abitano in uno dei quartieri più ricchi di Roma, il Parioli. E’ proprio lì che, sotto un strato di inerte perfezione, si sedimenta una spirale di corruzione, segreti, intrighi, tradimenti.
Entrambe si sentono come pesci in un acquario. Soffocano sotto il peso di un formalismo sterile, di un conformismo forzato; vorrebbero essere altro, essere altrove. Sono attratte dalla trasgressione, valvola di sfogo che le spoglia, le graffia, le rende vive.
L’attrazione di una vita segreta le porterà a far parte di un giro di prostituzione. Eppure, il prezzo da pagare sarà alto: la libertà tanto sospirata le sfiorerà nel momento esatto in cui si svelerà per ciò che è realmente, ovvero l’inizio di una nuova schiavitù.
Una Élite in salsa romana?
Baby non porta sullo schermo tematiche inesplorate. Sembra ricalcare, per alcuni versi, il prodotto spagnolo Élite. Anche nel progetto di Carlos Montero e Darío Madrona sono toccati temi complessi come il bullismo, ma con opportune differenze.
La serie italiana riesce a dosare gli ingredienti forti della narrazione (sesso, droga ecc), nutrendosi di suggestioni e strati sottili di malinconia. Nulla è esasperato, eppure tutto è in frantumi: l’adolescenza dei personaggi si sgretola nell’indifferenza altrui e nel proprio, personalissimo, silenzio. Il risultato è una forma grave di incomunicabilità.
L’oscena bellezza. Richiamo a Sorrentino?
Baby è uno scorcio sulla decadenza, un ritratto di oscena bellezza. La dote di riunire in un mosaico complesso i pezzi usurati dalla corruzione è tutta sorrentiana, applicata in quel capolavoro che è La Grande Bellezza. Baby si richiama a questo mondo torbido.
Paolo Sorrentino è il regista che fa brillare la vita segreta di una Roma inedita: quella Roma che si desta solo in sprazzi di incostante meraviglia. La stessa Città Eterna che, spesso, è filtrata attraverso gli occhi di Loro, le prostitute, scabrose amanti della notte.
Un linguaggio innovativo, quello dei social
Nel linguaggio di Baby risiede la vera innovazione. I ragazzi comunicano quando i display si illuminano: sms improvvisi, chat di gruppo, stories di Instagram farcite di emoticon, notifiche di applicazioni d’incontri. Il contatto visivo e umano, così, si disperde.
La serie offre un quadro dettagliato della nuova generazione di velocisti da tastiera che arrivano senza fiato alla linea d’arrivo dei sentimenti. La sceneggiatura sembra avere dei buchi molto gravi ma, in uno sguardo complessivo, decisamente calcolati.
La musica: una tracklist magnetica
Il vuoto che lasciano le parole, spesso nemmeno ben articolate, è riempito dalla musica.
L’affermazione è da prendere alla lettera: uno dei difetti più evidenti è che, in varie scene, il sonoro sovrasta i dialoghi, ridotti ad un bisbiglio incomprensibile.
La tracklist, capace di sostenere il crescendo emotivo, è tra le più belle che una serie abbia mai avuto. Girls Just Want to Have Fan, dei Chromatics, diventa iconica.
Nella scena finale, vibrano le note di Torna a casa dei Maneskin. Se chiudiamo gli occhi, possiamo vedere quella Marlena: una ragazza che brancola nel buio, il cui dolore diventa la sua strada. Ma anche una giovane donna pervasa da un’energia che è quasi ebrezza.
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