Blade Runner: tra passato e presente di una pellicola di culto
L’immagine di Blade Runner tra passato e presente
Quando Dennis Villeneuve finì “Sicario” (2015) fu terrorizzato di accettare la direzione del sequel di Blade Runner di Ridley Scott (1982) che aprì l’era di una fantascienza punk personale, intimista ma che sapeva guardare nitidamente a quel macrocosmo che era e che è la società. Quando gli fu data fiducia e carta bianca per il sequel, Villeneuve aveva già in mano “Arrival” (2016) poi presentato al Festival di Venezia dell’anno scorso. Villeneuve sembrava da lontano il regista più vicino a quell’idea di fantascienza lirica e spirituale, tutta “scottiana” e riservata ad un preciso compito: scoprire coscienze e sventare anni di fantascienza aperta al grande pubblico vicino al blockbuster e ad un senso “spielberghiano” dello spazio e della narrazione ludica (senza mai negare sottotesti e messaggi) ma mai elevata completamente ad una cifra filosofica.
Lo si immaginava vicino Villeneuve a quella presenza ultra contemporanea di fantascienza, per l’economia dell’immagine, per l’immediato rapporto suggestivo che le sue inquadrature e la sua fotografia creavano senza per forza la parola, “rappresentando” ma soprattutto “rappresentandosi” nei personaggi in rapporto con gli spazi.
Lo sbaglio, bisogna dirlo, è stato fatto. E’ stato fatto perché Villeneuve è sempre più vicino all’idea dell’immagine quanto più Scott è vicino in maniera opposta nei confronti di essa. Perché se è vero che tutti e due sanno parlare bene tramite l’immagine avvicinandosi all’individuo, al rapporto che egli ha con un determinato spazio e in determinato tempo, è anche vero che lo fanno in maniera così tanto diversa che non si corrispondono, non si proporzionano, ed ecco che l’immagine e un capolavoro come Blade Runner, (nell’irrimediabile confronto forzato quasi dall’origine di una storia in comune) vengono traslati a distanza di anni in maniera sbagliata.
Se Villeneuve opera sugli spazi dell’Immagine in maniera “identitaria”, Scott crea immagini “all’origine”, immagini uniformi, dentro le presenze, senza costrutto, codificandosi con un’antropologia sia vicina che originale delle culture del mondo. Lo fa nello stesso tempo atteggiandosi da “iconografo pur affermandosi iconoclasta”.
L’Immagine in Scott è completa, non cerca il progetto, nasce e muore nello stesso momento in cui viene creata, è metaforica e simbolica senza mai esserlo selvaggiamente, senza rimandi e sottolineature. In Villeneuve l’immagine assume un valore “individualista” più che antropologico, liberando o costruendo confini nei e tra i suoi personaggi, rappresentando la loro dolce sinfonia nell’intromettersi nell’altro o nell’allontanarsi, celebrando un’elegia del passato e l’assenza di una vera comunicazione tra valori supposti e vera moralità.
Villeneuve crea quindi, un “ecosistema” che assomiglia molto a quello di uno Scott, ma che è in realtà un’operazione prima di “distanza” e poi di “riempimento” senza mai raggiungere il valore rigoroso e l’assorbimento immaginifico del regista che l’ha preceduto. Se tutti e due, sia Scott che Villeneuve, creano un “ecosistema”, cioè il rapporto tra uomo e ambiente, Scott a differenza di Villeneuve crea un “ecofatto”, cioè il prodotto tra l’uomo e la Natura. Scott crea il “bene primo”.
Blade Runner 2049 perde la sua Visione iniziale, da figlio diventa figliastro disilluso un po’ come il protagonista che racconta. Nelle lungaggini di troppo pavoneggia del “muscolare”, mostra qualcosa che è molto più vicina alla nostalgia dell’immagine di oggi. La nostalgia diventa così un copia e incolla “refniano”, il presente si allontana sempre di più dal passato, e Blade Runner 2049 ha solo il nome per due terzi del capolavoro del passato, lasciando comunque importanti discorsi, sempre necessari, ma monitorandosi in senso opposto, facendo a volte dello studio dell’immagine un vacuo esercizio di stile.
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