C’erano una volta i paninari: ma chi erano? E perché si chiamavano così?

In un continuo revival della moda anni ’80, a cui assistiamo ormai da un bel po’ di stagioni, riscopriamo una delle generazioni che ha dato vita a questo look: i paninari

Se pensavamo che giacche esageratamente imbottite, pantaloni a vita alta e Timberland fossero un dress code proprio della nostra generazione, non eravamo a conoscenza dei paninari. Non è certo un segreto che la moda anni ’80 venga continuamente rispolverata e riadattata ad intervalli di tempo più o meno lunghi. E sembra che spalline imbottite, maniche a palloncino e camperos rifacciano capolino anche quest’anno.

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Ma cosa caratterizza questo stile tante volte riproposto? E soprattutto chi erano i protagonisti italiani di questa tendenza?

Negli anni della Milano da bere, sulle note dei Duran Duran e dei Depeche Mode, nasceva il fenomeno di costume italiano più significativo della moda di quegli anni:quello dei paninari.

Nati all’ombra della Madonnina e poi approdati in tutta Italia, i paninari e le sfitinzie (le controparti femminili) si distinguevano principalmente per il loro modo di vestire: felpa Best Company, il cui marchio è da poco stato rilanciato; jeans Levi’s, rigorosamente a vita alta e con i risvolti alle caviglie, un must-have eterno. Questi jeans mettevano in risalto altri due accessori fondamentali dell’outfit del paninaro: la vistosa cintura El Charro e i calzini a fantasia, Burlington a quadri per lui, Naj-Oleari per lei.

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Per le scarpe c’erano per lo per lo più due scelte: le Timberland, apprezzate in tutti i modelli, e gli stivaletti Frye o Durango. Queste calzature erano talmente desiderate da essere addirittura oggetto di furto da parte dei meno fortunati. A rivestire il tutto, soprattutto nei periodi più rigidi, c’era l’immancabile giubbotto Moncler, esageratamente gonfio e dai colori più sgargianti.

Anche per l‘hair-style c’erano dei canoni da rispettare: capelli cotonati e legati con vistosi elastici per le ragazze, ai boys invece, si proponeva il famoso taglio “mullet”, lanciato da David Bowie.

Ma perché si facevano chiamare così?

Il termine “paninaro” deriva dai loro luoghi di aggregazione: in un’Italia appena affacciatasi alla realtà dei fast food americani, in piazza San Babila e dintorni spuntavano ad ogni angolo paninerie di tutti i tipi: Burghy, Mc Donald, Burger King. All’insegna della nascente era del consumismo, questi locali costituivano le nuove case della cultura della gioventù milanese: vi si riunivano per mangiare,parlare di vestiti, musica e locali in della zona. Il nuovo mito dell’America e dei suoi pasti fugaci erano la perfetta incarnazione degli ideali di quegli anni: leggerezza e disimpegno, in netto contrasto con le militanze anti-Vietnam e la Iron Lady del decennio precedente.

Questo fenomeno così radicato portò anche alla distorsione dell’italiano,a sostegno di un vero e proprio gergo paninaro. Il prosaico faceva da protagonista: “Sono fuori come un citofono” o “…come un’antenna” erano le loro espressioni preferite per intendere uno stato confusionale. I genitori venivano denominati “sapiens” a mo’ dispregiativo, considerati (come sempre) vecchi e non al passo coi tempi. Si ricorreva spesso anche a termini inglesi mescolati all’italiano come “troppo original” oppure “Il mio boy”.

Ma come ogni crew che si rispetti, anche i paninari avevano i loro avversari: i punk e i metallari erano i gruppi più in contrasto con questi giovani sognatori. La differenza consisteva proprio nell’origine degli stili: mentre la moda dark borchiata proveniva da lontano, lo stile del paninaro era un prodotto interamente made in Italy, pur strizzando l’occhio ai capi americani.

Dello stile del perfetto paninaro ci è rimasto ben poco: come detto prima, la moda anni ’80 è stato riadattata ai nostri giorni, sicuramente in una variante più sobria. Si è ben lontani (per fortuna) dalla sfrenata appariscenza dei Cucador, ma (purtroppo) abbastanza vicini alla stessa superficialità. Certo è che quello stile “troppo giusto” vivrà per sempre e con affettuosa nostalgia nei cuori degli eterni “Wild Boys”.

Chiara Gioia

La scrittura è per chi vuole leggere, la buona scrittura è per chi vuole amare. Ed io, umilmente, ambisco sempre alla seconda. Sono Chiara. Classe '97, di Salerno. Chiara di nome e di fatto, cerco sempre di esprimere al meglio ciò che penso e, quando non riesco, provo con la scrittura. Laureata in Lingue presso l'Università di Salerno, mi sto specializzando in Comunicazione presso la stessa. Scrivo principalmente di cronaca e gossip. Parlo anche di serie tv che ho apprezzato e non, di film che ho amato oppure odiato. Sognatrice cronica, romantica, idealista. Mi piacciono i gatti, il vetro soffiato, i mandala, gli Avengers, l'alba scorta per caso. Odio il caffè, i film in bianco e nero, chi parla troppo (ci sono già io),chi parla troppo poco. Sogno un giorno di lavorare in qualsiasi settore che riguardi una tastiera e qualcosa da commentare o editare.

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