Coronavirus: l’individualità prevale ancora una volta sulla collettività
Cosa accade quando il Coronavirus ci mette di fronte alla fragilità dell’essere umano? La fuga pazza da Milano ci fa riscoprire fragili ed egoisti
Coronavirus? Ormai è la parola ricorrente nelle ultime settimane. Divenuta comune, non c’è una nota vocale, un messaggio, una conversazione, un post sui social – siano essi informativi, allarmistici o divertenti – che non contengano questa parola. Fino a qualche settimana fa, esattamente 16 giorni, ci sembrava una cosa così lontana. Se lo si chiedeva in giro “Beh, il solito virus cinese, c’era da aspettarselo”, oppure “sono diversi, un’altra cultura, si mangiano i pipistrelli”. E ora invece.
Ora lo ritroviamo nel viso del vicino che abbiamo sempre salutato e che ora ci riesce difficile guardare come prima. Lo ritroviamo nel volto di un conoscente “ma perché è raffreddato?” Abbiamo paura. Abbiamo paura perché noi siamo il paese del buon cibo, siamo il paese degli abbracci per strada e le strette di mano, siamo il paese che “mi dispiace francesi non potrete mai capire cosa vuol dire avere il bidè.” Eppure ci siamo ammalati.
La nostra Nazione si va tingendo di rosso, il rosso delle zone focolaio colpite dal malore. Del rosso delle sirene delle ambulanze. Le ambulanze, quelle che quando passano ci fanno tremare, più del dovuto, più del consueto. “Fa che non si fermi vicino al mio palazzo”. Quelle che destano curiosità e sospetto. Il Paese si immobilizza. “Oddio, ma lì ci abita l’amico del fratello…”
Tutto si ferma. Dobbiamo cambiare i nostri stili di vita. Ricordate quando andare al bar era semplice come respirare? Ora no. Un metro di distanza tra una persona e l’altra. Ricordate come era semplice andare al cinema? Ora no, due poltrone di distanza. Una distanza che si inasprisce e ci rende fragili, freddi, sospettosi. Il vicino non è più il vicino, l’amico tornato da un viaggio non è più il solito amico.
Allarmismo? Esagerazione? Ipocondria? È un misto di tutto ciò. Eppure quando le scuole chiudono e i luoghi di aggregazione anche, come si fa a non pensare che qualcosa stia cambiando? La normalità sembra dare spazio a un luogo asettico. La gente ci passa di fianco e noi guardiamo le mani, la bocca.
16 giorni. 16 giorni dove il Coronavirus ha permesso all’Italia di riscoprirsi immigrata, rifiutata, dispregiata. Gli untori dell’Europa. Mentre nostri connazionali vengono respinti da ogni dove, ci ritroviamo a chiederci “ma quando passerà?” E nessuno riesce a darci una spiegazione, un termine di scadenza.
“Ma quel viaggio che ho programmato mesi fa, lo potrò fare?” Ed è qui che l’opinione pubblica si spacca. Eco parlava di apocalittici e integrati nei confronti dei social. Potremmo coniare la stessa espressione nei confronti del coronavirus. Coloro che da subito si sono chiusi in casa, impauriti da questa epidemia. Coloro che hanno fatto le scorte al supermercato saccheggiando tutto quello che si poteva causando l’ilarità dei tanti che li schernivano. E poi ci sono gli integrati, quelli che sembra che da sempre abbiano avuto a che fare con delle epidemie. “Semplice influenza”, aspirina e via. Due fazioni, una contro l’altra.
Ma mentre il tempo passava, le mascherine si esaurivano e l’Amuchina veniva utilizzata come acqua a cosa abbiamo dovuto assistere? Se esiste un momento in cui le critiche dovrebbero fermarsi e dare spazio al pieno sostegno è proprio durante un momento di crisi del genere. Ma la politica ha fallito. E no, non intendo una bandiera particolare della politica, non si parla di volti simpatici o meno. Tutta la politica ha fallito. È il crollo delle istituzioni e del loro significato. Non è più la voce del Paese.
Il nostro Presidente ci chiede di pensare al prossimo. “State a casa il più possibile, rispettate le norme, il nostro è un paese forte, ce la faremo.” Queste parole, tutto quello che sta accadendo al nostro paese lo leggeranno i postumi nei libri di storia. E quale sarà il prosieguo? I nostri nipoti ci chiederanno “e cosa fecero gli italiani?”. Scapparono prendendo l’ultimo treno disponibile per andare via dalla Lombardia. Frequentarono i locali della movida come se nulla fosse; cercarono di aggirare le forze dell’ordine non dicendo di essere ammalati. È il fallimento di un’intera umanità che non riesce a rinunciare a nulla ma che vuole tutto. Vuole la normalità, vuole non ammalarsi ma vuole uscire, però vuole che quelli che ci governano risolavano tutto velocemente.
E allora forse non si tratta di apocalittici e integrati ma di semplice buon senso. Quello che è mancato ieri notte. Quello che purtroppo mancherà ancora perché siamo esseri fallibili, tutti desiderosi di ritornare nel proprio porto sicuro. E finché l’emergenza coronavirus non sarà finita, l’individualità prevarrà sempre a discapito della collettività.
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