Frattura Vecchia, un borgo abbandonato da 100 anni
In questa nuova tappa, A ZONzo vi porta a Frattura Vecchia, nel cuore dell’Abruzzo. Il borgo, disabitato dal 1915, si erge sul lago di Scanno
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Era il 13 gennaio 1915 quando il terremoto della Marsica, in Abruzzo, causò la distruzione di Frattura, una frazione di Scanno, in provincia di L’Aquila. Quel giorno, la terra tremò nel sorgere dell’alba e persero la vita oltre 160 persone (quasi l’intera popolazione del villaggio), principalmente donne e bambini, dato che gli uomini si erano trasferiti negli Stati Uniti d’America con la speranza di trovare miglior sorte.
Nel settembre 2013, 98 anni dopo la catastrofe, mi sono recato in questo luogo per visitare le rovine del vecchio centro abitato. Quel sabato, ricordo che convinsi due persone a me care ad accompagnarmi in questa avventura; partimmo in tarda mattinata, ma Scanno non era una località nuova per me, quel posto emanava nella mia anima un certo fascino non soltanto per le bellezze paesaggistiche che è in grado di offrire, ma anche perché avevo già tentato di visitare Frattura Vecchia per ben due volte, senza riuscirci, recandomi di proposito in quel luogo per documentarmi di persona.
Non è facile dimenticare il percorso che porta a Scanno: costeggiammo per tutto il tragitto, caratterizzato da una strada che somiglia a una strettoia piena di curve e da gallerie scavate nella roccia, il lago. Prima di raggiungere Scanno, però, ci fermammo a Villalago, dove notammo un ponte e degli alberi di pino in lontananza; attraversando il ponte San Domenico, si raggiunge un’area picnic, dove sostammo per pranzare e trovare un po’ di refrigerio. Dai tavoli di legno dove eravamo seduti, si presentò di fronte a noi uno spettacolo magnifico: la chiesa sul ponte era riflessa nell’acqua verde del lago, c’erano anche delle oche bianche (le quali, a riva, attendevano pazienti che qualcuno gettasse loro qualche briciola di pane da mangiare) e poi delle cascate meravigliose, nella quiete della natura, con il suono sereno dell’acqua che ci aveva rilassati per tutto il tempo, concedendoci una sensazione invidiabile di sollievo e beatitudine. In quel momento volevo illudermi che la vita così luminosa fosse durata per sempre.
A Frattura, in estate, viene praticato il gioco delle bocce; infatti, prima di incamminarci verso il paese ormai disabitato, ne approfittammo per fermarci in un bar nei paraggi (sulle pendici della montagna, ad un’altitudine di 1.260 metri, si nota il lago che, da un’altra visuale, assume un bizzarro disegno a forma di cuore), dove notammo alcuni anziani che erano intenti a lanciare le sfere colorate. Uno di loro, in particolare, non passò inosservato ai nostri occhi, soprattutto a quelli di un mio amico, dato che questo signore indossava un berretto proprio con la bandiera della sua nazione. Quando glielo facemmo notare, lui immediatamente ci raggiunse. Intrapresero un dialogo in spagnolo, dal quale io potevo comprendere solo qualche stralcio del discorso; questo tizio, abruzzese di nascita, ci raccontò che si era trasferito in Sud America a vent’anni appena, seguendo le orme dei suoi parenti, con l’aspettativa di una migliore qualità di vita all’estero. Ci confessò che una delle case pericolanti, all’inizio del paese, era la sua. Non aveva avuto più modo di tornarci, ma lì erano rimasti intatti i ricordi legati alla sua famiglia.
Non nego che per un istante pensai che neanche quella volta sarei riuscito a visitare la città fantasma, dato che eravamo entrati nel vivo della conversazione e mi sembrava alquanto scortese e inopportuno lasciarla incompiuta, ma inconsapevolmente proprio con il suo accenno a Frattura Vecchia, quello sconosciuto così espansivo mi servì l’occasione per dichiarargli il reale motivo della mia presenza in quel posto dimenticato. Fu così che, comprendendo il fine del mio viaggio, mi lasciò andare ed io lo confortai dicendogli che sarei tornato poco dopo.
Da Frattura Nuova seguendo l’indicazione per Frattura Vecchia, si attraversa una strada con dei ruderi ma poi, dopo pochi metri, s’intravede da lontano un paesaggio con dei tornanti, un cimitero, tanto verde e il paese arroccato tra le valli, come se volesse nascondersi e mettersi al riparo da possibili nuovi disastri naturali. La strada è in discrete condizioni fino in prossimità del camposanto, percorrendo il sentiero non è asfaltata anche se, attraversandolo, vidi ritornare dalla cima un’auto e un uomo in sella a un motorino malconcio (che tra l’altro ci salutò), ma comunque preferimmo parcheggiare l’autovettura per proseguire a piedi.
All’inizio del sentiero, sono visibili un cartello di divieto arrugginito e un campo da tennis mentre avvicinandosi al paese comincia il percorso in salita, in una serie di curve; camminammo forse mezz’ora o al massimo quaranta/quarantacinque minuti.
Giunti al paese abbandonato, si udiva il belare delle pecore, mentre fummo accolti dall’indifferenza di un branco di cani, protettori del gregge, e da un gruppo di persone che faceva trekking. La prima immagine che si coglie è quella di una chiesa di piccole dimensioni (la chiesa di San Nicola) dove, sporgendosi da uno spiraglio della porta d’ingresso, è visibile l’interno. Oltre a un abbeveratoio in pietra, meritano una menzione particolare anche gli edifici crollati, altre case ristrutturate e una fontana del 1834, che si trova nel piazzale di questo spopolato centro urbano (infatti nel borgo sono funzionanti sia l’acqua che la luce), dove è stato girato il film neorealista “Uomini e lupi” nel 1956, con Yves Montand e Silvana Mangano.
Quando all’improvviso la sera si impadronì del cielo, ritornammo al locale, dove scorgemmo quell’uomo dall’aspetto corpulento e col viso rubicondo che stava per andarsene; facemmo giusto in tempo per salutarlo di nuovo e scambiare qualche chiacchiera ancora un po’, prima che tornasse a Sulmona, cittadina dove anche noi, per pura coincidenza, eravamo diretti prima di fare rientro a casa.
Frattura Vecchia e Scanno, da allora, mi sono rimasti nel cuore, come quei posti dove non hai radici ma che sin dall’inizio cambiano il tuo modo di vedere e sai che in qualche modo ti appartengono, restando scolpiti nella tua mente. Di quel giorno, nel declino dell’estate, ricordo il silenzio del tempo ormai perduto, la solitudine delle case rimaste in piedi, le miserie dei residenti che nell’alba trovarono il loro vespro e una brezza triste fra la polvere e le rovine.
© Fotografie di Paolo Pagnotta
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