29 Maggio 2018 - 16:20

La generazione della crisi in un’Italia senza futuro

generazione della crisi

L’eterno presente della generazione della crisi è una gabbia dorata che tarpa le ali a sogni, ambizioni e prospettive future dei giovani millennials italiani

“Anche se il nostro maggio

ha fatto a meno del vostro coraggio

se la paura di guardare

vi ha fatto chinare il mento

anche se voi vi credete assolti

siete lo stesso coinvolti” cantava De Andrè nel 1973.

La parola crisi, dal greco krísis scelta, decisione,  e tutto ciò che il termine evoca, si traduce ai giorni nostri in un nunc stans, un eterno presente dell’incertezza. L’eterno presente della generazione della crisi è una gabbia dorata che tarpa le ali a sogni, ambizioni e prospettive future dei giovani millennials italiani.

Una generazione che brancola nel niente, che esprime un voto di “protesta”, che non ha la busta paga per il mutuo, che non timbra i cartellini, che guida l’auto assicurata dai genitori, che non avrà mai una pensione e che non potrà fare figli. E ancora i giovani del “compro titoli”: scuole di specializzazione, master, abilitazioni, certificazioni e chi più ne più ne metta perché alla fine tutto fa brodo.

Ragazzi  disorientati, dai progetti congelati, che durante un colloquio alla domanda “cosa vuoi fare da grande?” rispondono un imbarazzato e tentennante: “non ne ho idea”. E questo non perché sono rassegnati ma perché sono diventati pragmatici, capaci di accettare anche lavori non in linea con i propri studi e le proprie aspettative. La generazione del lavoro non retribuito, degli stage a tempo pieno, dei contratti “a progetto” che sebbene aboliti dal Jobs Act, continuano ad essere propinati da qualche “astuto” datore di lavoro. E prima ancora, gli studenti dell’alternanza scuola-lavoro, dei tirocini formativi che non formano, dell’orientamento in uscita che vende “fuffa”. Un contesto culturale e formativo che impedisce di proiettarsi in una dimensione appagante.

Allora si sceglie, esattamente come suggerisce l’autentico significato del termine “crisi”. Si sceglie di lasciare il Paese e trovare occupazione e benessere all’estero verso l’altrove: l’altrove dalla stanchezza, dall’avvilimento, da uno stato di precarietà perenne. L’altrove in un posto qualsiasi in cui sia possibile trovare la propria strada senza bisogno di “segnalazioni”.

C’è poi chi sceglie di restare, perché il fenomeno della fuga dei cervelli esiste e cresce ma non è l’unico. Qualche cervello resta: ci sono giovani che sognano di costruirsi un futuro nella loro città, accanto alla propria famiglia. E non per paura o vigliaccheria ma perché animati da un profondo senso di appartenenza e dal desiderio di riscatto e realizzazione personale.

Banalità e retorica a parte, “Giovani e il lavoro” o ancora, con uno sguardo a sud dello Stivale, “La sfida del Mezzogiorno per lo sviluppo sostenibile” sono slogan sbandierati nelle piazze, durante le iniziative organizzate dai sindacati, nei raduni di “palazzo” dai partiti politici.  Allora via con l’azzeramento progressivo del precariato, il rilancio dell’Università italiana, il sostegno alle start-up e all’imprenditoria giovanile e ancora reddito di cittadinanza, reddito minimo garantito, reddito di dignità.

Siamo la generazione della crisi con tutto il peso che questa “definizione” impone, al di là delle etichette e degli stereotipi comunemente accettati e condivisi, abbiamo la responsabilità di non lasciarci spersonalizzare, di tutelare la nostra dignità, di non dissolverci nella massa e dare forma e senso al nostro futuro.

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