L’Uomo Invisibile: Leigh Whannell e la paura del futuro tecnologico
Con L’Uomo Invisibile, Leigh Whannell segna un altro colpaccio nella sua filmografia. E lo fa portando avanti un discorso sociologico molto attuale
I più lo avevano già segnalato come uno dei nuovi autori più “in palla” di questo decennio. Del resto, se collabori con James Wan, colui che (in barba anche ai suoi detrattori) ha rivoluzionato i connotati dell’horror, qualcosa dovrai pur valere. Questo è il primo pensiero che viene “conoscendo” Leigh Whannell, che nel panorama dell’horror americano ha contribuito a portare nuova freschezza ad un genere che era assopito a dettami e stereotipi già perpetrati in continuazione e a citazionismi vari. E così, la Blumhouse gli ha assegnato un compito difficile: traslare un classico dell’horror come L’Uomo Invisibile di quasi 100 anni.
Il compito è davvero arduo, se si pensa a quanti altri remake/reboot di altre opere famose hanno fallito miseramente il proprio tentativo. Ma, in maniera davvero incredibile, Leigh Whannell ne esce clamorosamente vincitore. Riesce non solo a far riacquistare bellezza e splendore ad una storia che, per quanto datata, ha comunque contribuito alla fondazione del genere, ma anche a proporsi definitivamente come autore. L’aspetto più interessante de L’Uomo Invisibile, come vedremo in seguito, è infatti proprio la sua contestualizzazione nei canoni moderni cinematografici.
E così, del canone orrorifico originale dettato da James Whale resta, essenzialmente, poco. Non per questo, però, il regista di Upgrade disprezza e degrada completamente il lavoro fatto dal mitico regista britannico. Anzi, questo remake/reboot si pone perfettamente a metà tra la rilettura attualizzata e lo sguardo ad un passato che, volente o nolente, sarebbe stato impossibile non tenere in considerazione.
Pronti anche voi ad osservare le “vicende” di questo nuovo reboot?
Una nuova vita?
Come dicevamo in precedenza, L’Uomo Invisibile di Whannell riesce ad adattarsi perfettamente alle paranoie contemporanee. Una di queste è lo stalking. Infatti, la sua storia parte proprio da una “fuga dalla persecuzione”. Cecilia (Elisabeth Moss) è da poco riuscita a scappare da Adrian (Oliver Jackson-Cohen), il suo fidanzato psicologicamente e fisicamente abusivo, nonché ricco uomo di successo nel mondo dell’ottica. Con l’aiuto della sorella, la donna si nasconderà in segreto nella casa di un amico d’infanzia, James (Aldis Hodge), detective che vive con sua figlia Sydney (Storm Reid).
Temendo ritorsioni e la vendetta dell’ex fidanzato, Cecilia ha paura di uscire di casa. Due settimane dopo, la donna viene a sapere dell’improvviso suicidio del suo fidanzato. Con sua sorpresa, scoprirà di aver ereditato da lui una grossa somma. Nonostante tutto, però, la protagonista continua a dubitare della morte di Adrian. Ad alimentare la sua paranoia, saranno strani avvenimenti che cominceranno a convincerla che il suo ex abbia finto il decesso per controllarla senza essere visto.
Riuscirà Cecilia a scovare il mistero celato dietro l’improvvisa morte di Adrian? E soprattutto, esiste davvero questo fantomatico “Uomo Invisibile”?
La tecnologia e lo stalking
Di solito, i remake/reboot riescono sempre a far stragi inconsulte e a defraudare clamorosamente l’anima dei film da cui sono tratti. Eppure, qui Whannell non solo osserva un ossequioso rispetto nei confronti de L’Uomo Invisibile originale, ma compie addirittura due mezzi miracoli: quelli di reinventarne il mito in maniera intelligente e addirittura di approfondire il discorso già trattato con Upgrade.
Infatti, il legame profondo con la sua ottima precedente prova sta tutto nell’approfondimento dell’argomento uomo-tecnologia già trattato. Whannell mostra nuovamente gli effetti negativi e distopici del progresso, attaccando dal punto di vista sociale corporazioni e gli interessi capitalistici dietro di esse. Il tutto senza scostarsi, però, dalla pellicola originale. L’orrore de L’Uomo Invisibile è infatti fantasmatico, paranoico, pieno di inquietudini e di argomenti attualissimi come lo stalking, di una tensione che dura due ore e non si affievolisce e di atmosfere rarefatte.
Il regista, poi, gira con stile, dosando perfettamente atmosfere, tempi e tecnicismi tramite inquadrature fisse e ottimi piani sequenza nelle scene più “action”. La fotografia è asciutta, secca, scarna, ma non per questo meno interessante. Il lavoro sul suono è meticoloso. In più, il film trova il suo punto di forza nella grande prova di Elisabeth Moss, magnetica, tormentata ma quanto di più naturale possibile. Assistiamo quasi ad un “one-woman show“, di fatto.
Il resto del cast dov’è?
Difficile davvero criticare L’Uomo Invisibile. Se, però, gli si può trovare un appunto, è tutto rivolto all’utilizzo del resto del cast. Nonostante la propria buona prova, infatti, sia Aldis Hodge che la giovane Storm Reid che Oliver Jackson-Cohen escono inevitabilmente ridimensionati, se comparati alla prova della protagonista.
Sia chiaro, nemmeno questa è una critica. Infatti, tutti gli attori garantiscono comunque un degno accompagnamento ed è difficile davvero trovare qualcosa da ridire nei loro confronti. Forse il demerito è anche della sceneggiatura di Whannell, che diventa ad un certo punto troppo prevedibile e pecca anche di un po’ di superficialità sulle sottotrame, come quella della gravidanza.
Poco male, però, perché, nonostante tutto, la spiegazione per i buchi di sceneggiatura de L’Uomo Invisibile, il regista la fornisce in modo adeguato e competente, evitando disastri e strascichi indelebili. Insomma, siamo ancora all’inizio dell’anno ed è difficile abbozzare già le prime valutazioni. Ma, se dovessimo scommettere e sbilanciarci, diremmo che siamo già di fronte ad uno dei migliori horror dell’anno.
ARTICOLO PRECEDENTE
ARTICOLO SUCCESSIVO
Coronavirus, antivirali introvabili: perché Remdesivir non viene usato al sud