Marta De LLuvia:”Non voglio farmi mangiare dal tempo”
Marta De LLuvia, finalista alla Targa Tenco 2019 (sezione Miglior Opera Prima) torna sul mercato discografico con "La Festa che non c'era"
Domenica 8 ottobre sul palco del Mou di Milano, ospite della quinta edizione della rassegna “Because The Night – La Notte delle Cantautrici“, ci sarà anche Marta De Lluvia. La cantautrice e poetessa recanatese nel giro di qualche settimana (venerdì 27 ottobre) pubblicherà poi il suo nuovo progetto discografico “La Festa che non c’era”, che ci presenta in anteprima con un’intervista esclusiva.
Marta, il fatto che ci sia bisogno di una rassegna che metta in luce il cantautorato femminile italiano dimostra che, anche nella musica, in tema di politiche di genere abbiamo ancora molto da fare…
La più grande conquista delle cantautrici è senz’altro la loro capacità di fare gruppo scoperta soprattutto, e parlo anche per esperienza personale, durante il Covid, con la nascita di movimenti e associazioni di cantautrici. Tuttavia combattiamo ancora con una mentalità che ci vuole silenti, gentili. Pretende che noi facciamo le nostre cose quasi senza disturbare. E questo imprinting la controparte maschile lo cavalca: vogliono toglierci potere. Lo raccontava anche Elisa qualche tempo fa: “Si chiedevano perché volessi scrivere. Perché non mi limitassi a cantare”. Il pregiudizio che una donna non possa o non sappia scrivere di temi impegnati è uno stigma che ci portiamo addosso da tempo. Non si è del tutto compreso che oggi il modo di intendere il cantautorato è cambiato: non è più un andare contro una parte politica o semplicemente battersi per un ideale a discapito di un altro. Ma dare voce al cambiamento che avviene dentro di noi: a me, da cantautrice, interessa più quello che succede all’interno di me; perché più mi sentirò libera dentro, tanto sarò in grado di intercettare quanto cambia fuori da me.
C’è un dato biografico che mi colpisce di lei: è nata a Recanati, patria di Leopardi. Mi piace pensare che scriva anche perché ha respirato un po’ di quella eredità.
E’ assolutamente così. In Leopardi ho sempre visto un’anima vicina che ha faticato a trovare il suo posto, salvo poi capire che si sentiva a casa solo nella scrittura.
Leopardi è un po’ una “malerba” di quelle che canta nel suo nuovo album.
“Malerba” è una canzone che ha più strati: uno ci riguarda tutti, perché almeno una volta nella vita ci siamo sentiti esclusi, fuori posto. L’altro, invece, tocca più da vicino quelle persone che davvero in alcune società, e anche nella nostra purtroppo, sono considerate delle “malerbe”. Pensi a quanto infiamma gli animi il tema dell’immigrazione: guardiamo spesso con rabbia a queste persone che intraprendono un viaggio disperato alla ricerca di un futuro migliore. Ci rubano spazio, diciamo, proprio come la “malerba” ruba spazio alle piante più belle. Ma cos’è che ci fa rabbia davvero? Il fatto che queste persone abbiano compreso meglio di noi, dall’altro dei nostri agi, che non possediamo altro che la nostra vita e ci si aggrappano con tutte le forze.
Tutto il resto ci è dato in prestito, prima o poi dovremo lasciarlo. E’ lo stesso concetto attorno a cui ruota “Second Hand”: lei, allora, da dove viene? E cosa le piacerebbe lasciare di sé?
Vengo da una serie di parole dette male che ho cercato di trasformare in poesia. Non ha idea di quanti danni possa fare amarsi e non saperselo dire, trattenere un “ti voglio bene”. Il segreto di una comunicazione non “storta” non sta paradossalmente nel fatto che l’altro capisca e accetti quello che diciamo ma nell’essere prima di tutto noi stessi perfettamente consapevoli di quello che ci esce dalla bocca e, quindi, di ciò che siamo. Cosa intendo lasciare di me? Più che la volontà mi accompagna la speranza: il non saperlo, per me è alla base del movimento del dare.
Ci vuole tempo per raggiungere un tale livello di consapevolezza. E il tempo spesso è un grande nemico, anche dell’industria discografica.
Fare e ascoltare un disco oggi è un atto rivoluzionario. Ma sa che forse non mi piacerebbe essere prima su Spotify se questo significasse andare in bicicletta e non essere attratta da una malerba che cresce sul muro perché sono troppo concentrata su quando far uscire il prossimo singolo? Non sarei io, e non voglio farmi mangiare.
La scrittura per definizione è un processo lento: i concetti hanno bisogno di sedimentare, mettere radici.
Sembrerà strano ma io non parto quasi mai prima dal testo: se fosse così, non riuscirei a trasformare ciò che scrivo in una canzone. Quando sento che una canzone sta per prendere vita è perché ho in testa una melodia, in cui rintraccio appena una o due parole, pensieri sparsi che, appunto, solo col tempo diventano una canzone. Per esempio, “Malerba”: è nata un giorno in Belgio, in bicicletta, ma sulle prime non potevo sapere cosa sarebbe diventata. O ancora “In Amore”: erano gli anni che studiavo jazz e un giorno avevo in testa questo giro di chitarra che mi piaceva tantissimo. Il testo è arrivato dopo.
E la maternità ha già avuto un qualche effetto sulla sua scrittura?
In realtà si tratta di un cambiamento così importante e grande che ancora forse non sono pronta a scriverne. Di certo diventare madre ha cambiato la percezione di ciò che faccio: so che è importante, mi piace, ma riconosco che c’è qualcosa di più grande, che io stessa non sono più un’identità ma vivo in funzione di un noi.
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