30 Dicembre 2015 - 11:00

Matthew Barney: Cremaster e il Postmodernismo

Matthew Barney è un visual artist che si esprime attraverso opere multimediali e installazioni postmoderne. La sua opera più nota è il ciclo The Cremaster, che gli è valso il premio Europa 2000 alla 45ª Biennale di Venezia nel 1993 e lo Hugo Boss Prize del Museo Guggenheim nel 1996

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Matthew Barney (San Francisco, 25 marzo 1967), con un passato da fotomodello, dopo due semestri di Medicina inizia a seguire i corsi di Arti Visive, concludendo i suoi studi nel 1989 con la tesi “Field Dressing (Superficie Fasciata), costituita da un video realizzato in due stanze del Payne Whitney Gymnasium di Yale.

Matthew Barney: il postmoderno in CremasterDopo la laurea, la giusta intuizion di andare a New York, dove – a differenza di molti artisti esordienti – riesce a trovare fin da subito terreno fertile per la propria arte, ammaliando i galleristi. Qui nel 1990 espone “Field dressing” in una mostra collettiva all’Althea Viafora Gallery di New York. A partire dal 1991, grazie all’interesse dimostrato dalla gallerista Barbara Gladstone, Matthew Barney riesce ad esporre in giro per gli Stati Uniti, trovando in lei la produttrice del Cremaster Cycle e dei vari Drawing Restraint.

Nel 1992 ha partecipato a Documenta IX a Kassel in Germania, e nel 1993 alla Biennale di Venezia, dove ha vinto come miglior videoartista esordiente.

L’opera di Barney si riassume per molti, sostanzialmente, nel suo capolavoro, il Cremaster Cycle: una serie di cinque lungometraggi con sculture correlate, impianti coreografici e i relativi apparati fotografici e illustrativi, creati dallo stesso visual artist.

Matthew Barney: il postmoderno in Cremaster

Il Cremaster, realizzato tra il 1995 e il 2002, poi culminato in una grande mostra museale organizzata da Nancy Spector al Museo Solomon R. Guggenheim di New York, è la tipica espressione dell’era del simulacro in chiave barocca.

Forte della sua eredità genetica irlandese,  il visual artist americano traspone in quest’opera colossale l’iconicità della tradizione celtica, ma con un imprinting surrealista. 

In uno scenario postmoderno, impregnato di un decadentismo grottesco (evidente soprattutto in The Cremaster 1), Barney mette in atto una trasfigurazione ipercontemporanea di figure concettuali e allegoriche dalle spiccate allusioni anatomico-sessuali (che in parte rimandano al genio di Hieronymus Bosch). 

Matthew Barney: il postmoderno in CremasterLa trama di Cremaster evidenzia un viaggio nella differenziazione sessuale, che auspica trasformazioni corporee e una sorta di progresso biotecnologico della condizione umana, in bilico tra luoghi fantastici a reali, tra orifizi e portali.

Sulla scia delle tematiche affrontate, il Cremaster 1, ambientato a Boise nell’Idaho (paese dell’infanzia-adolescenza di Barney), rappresenta la fase ascetica e uno stato di “indifferenziazione”, per poi concludersi concettualmente nel Cremaster 5, che approda all’identificazione in una netta distinzione sessuale.

Matthew Barney: il postmoderno in CremasterDopo il primo lungometraggio, dominato da una sessualità ancora androgina e dal mito del femmineo, il secondo volume è incentrato sulla figura maschile, esternata nella sua dominante e preponderante fisicità, che “a livello biologico corrisponde alla fase di sviluppo del feto durante la quale inizia la divisione sessuale”.

In un’intervista rilasciata al critico d’arte Hans-Ulrich Obrist, Barney Barney ha affermato: “In Cremaster 2 è presente una riunione di figure paterne […] Io penso a queste figure come a stati fisici piuttosto che a personaggi della narrazione. Il genere di personaggi da cui sono attratto, il genere di icone, tende in questo modo a una forte fisicità”.

Matthew Barney: il postmoderno in CremasterL’evoluzione del ciclo, che non corrisponde ad una progressione narrativa, ma solo ad una costruzione logico-sintattica, fornisce una visione biologica contaminata dalla mitologia, dalla storia e dalla cronaca – The Cremaster 2 è influenzato dal documentario di Norman Mailer, La canzone del boia, dedicato al caso di Gary Gilmore, l’assassino che nel 1977 nello stato dell’Utah volle la pena capitale –  come un modo per esplorare la creazione, la materia e la forma attraverso l’ermetismo di diversi piani narrativi.

All’interno dell’enigmatico ciclo, ciò rimarca il paradossale e fantastico non sense: ogni fotogramma è crittografato, una sorta di rebus, basato sull’interconnessione tra diversi elementi e livelli di lettura, e sulla complessità della loro interrelazione. La rappresentazione, così, si sostituisce alla realtà nella sua spettacolarizzazione, come fenomeno simbolico, a tratti puramente estetizzante, dell’Arte per l’Arte.

Matthew Barney: il postmoderno in CremasterDunque The Cremaster lega l’Arte al Cinema: Barney ha realizzato un’opera totale, una summa artistico-cinematografica dai costi stratosferici, che lo vede ideatore, regista e protagonista. La firma registica è data dal ricorrente taglio orizzontale, dividendo del campo visivo, e dal logo, il “Field Emblem”, feticcio concettuale della serie quanto dell’impianto scultoreo e fotografico delle opere di Matthew Barney.

The Cremaster è effettivamente una genesi discontinua, priva di intenti etici o sociali, quasi autoreferenziale, ma dal forte impatto visivo: un’immaginifica ibridazione di un mondo virtuale, anacronistico e astorico. 

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