4 Settembre 2016 - 14:59

Diario di bordo 73a Mostra del Cinema di Venezia, sulla guerra e la religione (parte 1)

mostra del cinema di venezia

Guerra e religione alla 73a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

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Frequentando i festival del cinema ho avuto la possibilità di entrare in contatto con un mare di film francesi che altrimenti non avrei mai avuto occasione di vedere. Ho sempre amato il cinema francese ed è difficile per me non trovare piacevole un film del genere.

I francesi riescono sempre, senza troppi fronzoli, senza troppi effetti speciali, con semplicità, a narrare delle storie. Sono realisti, riescono a raccontare davvero una storia, che sia vera o di finzione.

Mi piace iniziare queste nuove pagine del mio diario di bordo alla mostra del cinema di Venezia con Frantz, l’ultimo film di Francois Ozon. Il regista di Jeune et Jolie mi ha presa per mano e ha saputo farmi vedere l’essere umano messo a nudo con le sue emozioni, senza freni, nella sua universalità. Del resto Ozon è uno dei pochi registi che riesce a raccontare davvero l’essere umano nelle sue contraddizioni e a dimostrarci che l’uomo è fatto di sfumature e che nulla è netto e limpido.

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Questa volta ho viaggiato nel tempo e mi ha condotta in Germania nel 1918, dopo la Grande Guerra, quando molti giovani soldati non sapevano neppure perché andavano a combattere. Uno di questi giovani soldati nella storia è appunto Frantz che noi non conosceremo mai, se non attraverso il racconto, perché caduto in trincea.

A lui era legata la giovane Anna che avrebbe dovuto sposare e che invece si ritrova vedova, prima che moglie a omaggiare il fidanzato sulla tomba. Proprio da un cimitero inizia l’azione con la presenza di un giovane uomo che si aggira intorno alla tomba del giovane soldato e che gli porta i fiori ogni giorno (Pierre Niney, Yves Saint Laurent). Il film è in bianco e nero ma i ricordi dei protagonisti e i momenti di gioia o quelli topici sono a colori. La fotografia sembra conferire all’opera l’effetto di un dipinto quando c’è il colore. Come se il film fosse stato colorato con il pennello.

Frantz racconta uno spaccato della realtà del 1918 in cui si dimostra che francesi, tedeschi e italiani, alla fine sono tutti uguali davanti alla morte e alla guerra. Frantz infatti, non è semplicemente un soldato caduto in battaglia, è il simbolo della guerra stessa e delle sue conseguenze. È il simbolo del dolore, dell’amore, delle relazioni, della famiglia. È il simbolo di tutte quelle cose di cui è fatta la vita dell’uomo. Ma è anche il simbolo di qualcosa che non c’è più, della gioia di vivere che sfiorisce a causa delle guerre.

Non mancano tutti gli elementi che caratterizzano la poetica di Ozon, l’ambiguità, l’assenza di confini netti nelle relazioni fra i protagonisti, la sensualità dei corpi e l’allusione continua a qualcosa che potrebbe accadere ma che non sempre accade.

In momenti difficili come può essere la guerra alcune persone si affidano alla preghiera e ci sono casi positivi in cui una fede incrollabile può aiutare una persona e casi molto negativi, estremi, in cui la linea sottile che divide la fede dal fanatismo svanisce e la religione diventa solo un pretesto per fare del male.

Tutto questo accade in Brimstone, film di Martin Koolhoven con Dakota Fanning e Guy Pierce. Credo sia impossibile riuscire a trasmettere la sofferenza fisica che ho provato nel vedere questo film. È la storia di una ragazza, figlia di una danese e di un predicatore, vittima del fanatismo religioso di costui, che nel corso della sua vita ne passa decisamente troppe, senza trovare mai una reale salvezza.

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Suo padre punisce moglie e figlia tutte le volte che queste non obbediscono a lui o alla volontà divina. Dal suicidio della madre, che trova nella morte una via di fuga la giovane Joanna subirà una carrellata di violenza che gli autori avrebbero potuto limitare.

L’uccisione di un amico che voleva salvarla, lo stupro da parte del padre che ritiene giusta questa azione per volontà divina, la fuga, la prostituzione e un nuovo incontro con il predicatore folle che in qualche modo riesce a trovarla. Un’altra fuga, a caro prezzo, un matrimonio e la vita sembra scorrere piacevole fino al giorno in cui suo padre, sopravvissuto alle fiamme dell’inferno non la trova di nuovo e il ciclo di violenza e distruzione continua. Non proseguo oltre nella trama, per non rovinare a nessuno il continuo della storia. Ma è certo che quanto ho descritto fino ad ora è solo un assaggio dell’inferno che viene rappresentato in questo film.

Quello che mi ha infastidita è stato il continuo riferimento alla religione e una lettura della parola divina che giustifica la violenza. Se questo film rappresenta qualcosa, allora certamente vuole dimostrare che le battaglie in nome della religione non servono a nulla. Ma mi dice anche qualcos’altro, che il mondo è pieno di fanatici e la violenza è ovunque. Credo che in qualche modo il film volesse parlare anche a quelli in sala che praticano una religione e perfino per me che non vado in chiesa, alcune parole, le continue citazioni della bibbia e il concetto di punizione continuamente ribadito, mi hanno fatta sentire in colpa e non saprei dire neppure di cosa.

Il film si presenta come un western, ma del genere ha ben poco. Solo l’ambientazione che tra l’altro si rivela molto avanti dopo che per una mezz’ora abbiamo creduto di trovarci in nell’Inghilterra della caccia alle streghe o nelle terre dei quaccheri.
Senza dubbio un film così non poteva che essere di produzione americana. Non è la prima volta che gli americani affrontano il discorso religioso e lì, in molte comunità di provincia ci sono tanti conservatori.

C’è un simbolismo esasperato. La corda per esempio che ritorna sempre e quasi sempre è simbolo di impiccagione ma anche di legame e unione. Il fuoco, simbolo dell’inferno e il sangue simbolo di violenza. Ma tutti questi elementi vengono ripetuti ossessivamente e la violenza gratuita a un certo punto diventa pornografica e ingiustificata, insistendo nell’urtare la sensibilità dello spettatore senza dare un reale contributo alla storia.
Inoltre affermare che si tratti di un western è una bestemmia dato che del genere sono rimasti solo gli orpelli.

Potrei dire che si tratta piuttosto di un horror di serie B travestito da western.

Ancora più insopportabile è che neppure quando sembra tutto finalmente finito la protagonista ha davvero espiato le sue colpe. Mi chiedo allora, quanto deve soffrire l’eroe prima di capitolare?

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