16 Dicembre 2014 - 12:10

Noir In Festival, salviamoci dal male

Al Courmayeur Noir In Festival la salvezza diventa il filo conduttore del cinema noir contemporaneo, ogni singolo film è un diverso percorso verso la redenzione

The Salvation

The Salvation al Courmayeur Noir In Festival

[ads2] “L’aggettivo nero serve spesso per qualificare l’atmosfera che domina nella serie: storie oscure, personaggi dalle ambizioni poco raccomandabili, un epilogo sinistro in un’alba livida” (P. Sorlin, The Dark Mirror, in “L’avant-scène cinéma”, n. 329-330, 1984, p.7). Terminato il festival dedicato al genere al Courmayeur Noir In Festival, in cui vince il Leone nero Black Sea di Kevin Macdonald e ritira il premio Raymond Chandler Award 2014 Jeffery Deaver per L’ombra del collezionista (Rizzoli). Black Sea conquista il pubblico, perché quest’anno non c’è una giuria a stabilire il vincitore, ma il film si avvicina allo spettatore. Non sorprende infatti la vittoria di quest’edizione, perché Black Sea ha inserito tutti quegli elementi che un pubblico di genere, ma anche più ampio, cerca.

Black Sea

Black Sea al Courmayeur Noir In Festival

Si può iscrivere nel Noir? Sì, perché l’azione di svolge quasi completamente in un ambiente claustrofobico, con luci artificiali che omaggiano anche il cinema espressionista tedesco e Mario Bava. I protagonisti in un’unità di luogo, spazio e tempo, mostrano una tendenza omicida nella lotta alla sopravvivenza. La storia stessa rivela un’anima losca di questi uomini che, emarginati dalla società, accettano di rinchiudersi in un sommergibile, dove ritrovare oro che risale alla Seconda Guerra Mondiale. Associare il racconto al Nazismo fa pensare quanto il male non sia solo dentro la grande storia, ma insito nelle piccole cose dell’uomo può diventare strage collettiva. Black Sea non meritava di vincere il Courmayeur Noir In Festival, perché tutto porta verso un esasperante eroismo, che affonda nel patetico. Robinson (Jude Law) alimenta con il suo ruolo una suspense che, se non avesse avuto gli effetti speciali, avrebbe annoiato forse anche il pubblico. Pubblico che cerca un finale romanzato, ovattato, per giustificare un’operazione come quella che compiono i nostri protagonisti in scena, e anche distributiva precisa.

Se la carrellata dei libri portati al Noir In Festival afferra il male dall’interno della società contemporanea, destrutturandolo in tante parti e analizzando un mondo sempre più oscuro e corrotto, in cui la libertà individuale e pubblica sono tanto annullate quanto fonte di un’idea perversa di stare nel mezzo delle cose e insieme agli altri, i fotogrammi dei film in concorso ci vogliono condurre verso la scelta della redenzione, di una salvezza che partendo dal singolo, può e sarà anche pubblica.

Il Male al Noir In Festival diventa concreto e s’identifica nelle istituzioni, nella perdita del lavoro, nella rincorsa alla bellezza abbagliante e omologante, nella concezione bigotta di una società che ha camuffato il valore della vita, nel potere del denaro, nell’emarginazione e nel trauma psicologico, nell’abbandono, nell’allontanamento dalla sfera spirituale e nella negazione della libertà.

Calvary

Clavary al Courmayeur Noir In Festival

Calvary di John Michael McDonagh esprime il percorso faticoso del prete James (Brendan Gleeson), che arriva da un passato misterioso per guidarsi verso una dimensione d’integrità morale e umana, lottando contro un sistema, come quello della Chiesa, che ha scandalizzato più volte fino a perdere, quasi definitivamente, il rapporto con la comunità. Calvary mette in scena una tra le ragioni che fanno dell’uomo un animale pericoloso e cruento: la non corrispondenza tra pensiero e agire, così come per la Chiesa. Ritornare all’importanza dei gesti è un passo doveroso e civile per ricostruire la giustizia sociale, da cui deriva la serenità e la libertà.

Things People Do, di Saar Klein, in un film drammatico più che un noir, pulisce l’immagine dalla violenza (belli e intensi i paesaggi che si alternano alla storia di Bill) e, attraversa il male dall’interno, mostrando la fragilità del protagonista da cui deriva la sua forza per inseguire un riscatto sociale. Contano i gesti, le azioni e non soltanto i pensieri; così come l’estetica del film deve subire un trattamento smacchiante, che metaforicamente scioglie il male e fa risplendere il bene, partendo dalla forma.

La libertà è manipolata, maltrattata e vittima di un gioco che non ha un senso logico: questa è la paura di Giacomo Lesina, e questa è la sua metafora di In the Box in concorso al Noir In Festival, in cui si respira aria solo per pochi minuti, perché diventa subito un luogo stretto e asfissiante, dove si consuma la vita di Elena (Antonia Liskova), vittima del suo passato e di un marito spacciatore. Chi ci fa del male a volte non espone neanche il proprio volto, torturando e portando al suicidio, come l’assassino del film. Chiunque può però ribellarsi al male ed eliminarlo, così come fa il piccolo bambino di In the Box, vittima del padre che si diverte con le vite altrui; così come decidono di fare Jon (Mads Mikkelsen) e Madelaine (Eva Green) in The Salvation, di Kristian Levring.

Al Noir In festival si cerca salvezza: con un misto asciutto di western e noir, Levring fa del dolore individuale, prodotto da fattori esterni (come la voglia di due uomini di prendere il predominio sull’intimità di una famiglia, fino a uccidere moglie e bambino brutalmente), alimenta il bisogno inconscio di fare i conti con il mondo, e di ripulire la terra dal sangue, dalla deviata virilità, dal sopruso e dal marcio denaro che circola tra le mani dei potenti. Fuoco e sparatorie porteranno a una pace convenzionale, costruita sul dolore. La salvezza è anche nello sguardo di Bill (Wes Bentley in Things People Do), che si rifugia al commissariato per denunciare la sua operazione alla Robin Hood, rubando ai ricchi per salvare i poveri, dopo aver perso il lavoro. Lo sguardo, importante strumento della paura nel cinema noir, si depura e ci mette in sintonia con il desiderio dell’attore, ci invita a partecipare.

Salvezza che trova Dave in Snow in Paradise di Andrew Hulme, quando incontra l’Islam per redimersi dalla morte del suo amico Tariq, di cui si sente colpevole. Dave (Frederick Schmidt) si stacca dal contesto criminale, in cui è capitato per volontà a lui sconosciute, dove le sue azioni sono il riflesso, quasi il prolungamento, di ciò che lo circonda.

white god

White God al Courmayeur Noir In Festival

Infine, un poetico film in concorso al Noir In Festival, White God di Kornél Mundruczó, che ha quelle potenzialità che lasciano senza parole. Un film che unisce il dramma e il noir attraverso un racconto ben costruito e bilanciato. Rappresenta la lotta tra Uomo e Natura entrando nello specifico, mostrando due percorsi paralleli: la formazione del rapporto padre/figlia e il cammino del cane Hagen verso l’amore dell’uomo. Questi due percorsi si completano a vicenda, si separano per fare esperienza della vita, poi si uniscono in un’armonia che ci porta ai titoli di coda con il rumoroso silenzio della natura. Il noir arriva gradualmente, perché deve esplodere sullo schermo solo quando i cani possono avere la loro vendetta. Quale vendetta cercano? Sono stati sottratti dall’amore, dalla socializzazione, dal rispetto tra le parti. In natura sono tutte leggi ben chiare, anche se sorprende all’uomo, che si reputa il più intelligente tra gli animali. Bisogna arrivare al finale per comprendere e sentire la meraviglia di una pellicola che mette in equilibrio la componente apollinea e quella dionisiaca della condizione umana.

Il Courmayeur Noir In Festival ha portato tanta qualità, anche alla 24esima edizione, ma il vincitore vero, a mio modesto parare rimane White God, per l’intensità dell’argomentazione in una metaforica lotta tra Bene e Male, possibile solo grazie alla purezza: Lili (Zsófia Psotta).

Se torniamo alla citazione di Sorlin vediamo che l’alba livida al Noir In Festival si schiarisce, tende al colore, perché scopre ciò che è spesso latente, e quindi, inquietante.