5 Dicembre 2018 - 17:51

“Ride” di Valerio Mastandrea e il complesso dell’opera prima

ride

“Ride”: la recensione dell’opera prima dell’attore Valerio Mastandrea, presentata all’ultimo Torino Film Festival e nei cinema

Forse quello che fa Valerio Mastandrea fin da subito con la sua opera prima “Ride”, non è raccontare a tutti i costi il dolore e il lutto, le emozioni più di tutto in questo caso, in maniera originale. Perché se davvero “Ride” è un film sul lutto, sulla sua assuefazione, sull’intimità di questo sentimento, è anche vero che a Mastandrea interessa più far indossare all’intera pellicola, ai suoi personaggi, la sua “caratteristica” di grande personalità poliedrica, i suoi stilemi di attore e il suo “artigianale” talento in equilibrio tra simpatia leggerezza e malinconia sorda. Più che un film sulla morte, sull’assenza “Ride” è prima di tutto un film su un mondo piccolo, su un microcosmo familiare e su una civiltà ripiegata sulle sue congetture, che sembra provenire da una mente eclettica, sempre in movimento, dallo sguardo “fanciullo” e disilluso del suo autore.

“La postura” di Mastandrea e del  suo film

“Ride” non è tanto un film dichiarato sulla perdita, ma è un “film alter ego”, un film intero che si muove come un Mastandrea così curioso di ciò che guarda, così diroccato e timido nei sentimenti dimessi. Partendo dalla sua protagonista mascolina che sembra racchiudere tutte le idiosincrasie e gli atteggiamenti del regista e con uno sguardo curioso puntato su tutto, dall’infanzia di suo figlio stordito dagli eventi che lotta per una ragazza disposta a fidanzarsi con lui solo dopo che egli diventati famoso davanti alla televisione durante la cerimonia funebre di suo padre, dagli amici di quest’ultimo intelligenti e affettuosi, dalla tragicommedia delle esistenze che si presenteranno alla porta della vedova a distanze di poche ore l’una dall’altra, e dal patetismo di alcuni momenti che svelano la finzione e la sfortuna di quasi tutte le opere prime ma che sono anche segno di estrema bontà, Mastandrea non si fa assolutamente scrupolo di spogliarsi e affermarsi dietro la macchina da presa. E’ qui che c’è Mastandrea più di tutto in “Ride”, nella voglia di guardare ai dettagli, alle stranezze, alla postura di un mondo come alla postura della sua protagonista. Non è un caso che Mastandrea racchiuda il suo film quasi del tutto dentro le mura di una casa che sembra appartenergli, appartenerci. Perché prima di tutto per lui conta lo sguardo familiare, il nostro e il suo modo di vedere un anfratto di vita, a lui interessa empatizzare con il suo materiale e farci empatizzare fin da subito con i suoi personaggi e con la loro carica emotiva.

Un’opera prima ricca della personalità del regista

Tutto si può dire di “Ride”, che sicuramente è un film imperfetto. Non si può dire però, che “Ride” non sia un film particolareggiato. Che non sia un film con una grande personalità prima di tutto e che non abbia caratteristiche che lo identifichino.  Perché proprio costruito sulle divergenze del suo autore-attore, “Ride” suona forse non come qualcosa di originale, ma come qualcosa con un’idea precisa. L’idea precisa ad esempio, di trascurare l’idea del silenzio in un film sul lutto, di dare poco tempo al vuoto di respirare, di non essere mai un film drammatico e pretestuoso su un tema forte, ma di cadenzarlo di musica senza affliggerlo di prepotente timore. Mastandrea parla del lutto “riempiendolo”, è qui che assomiglia e fa un po’ il verso a Nanni Moretti, perché è proprio da lì che proviene (forse) il suo cinema, lo fotografa con una carica pop e rock che converge con il suo apparato musicale, un po’ come farebbe l’Ozpetek “più orientale” delle prime opere, spudoratamente caldo come Almodovar anche nel dipingere la sofferenza, vicino un po’ a quel “Saturno contro” nel riprendere la pantomima e la gestualità dei suoi personaggi sui generis davanti ad un lutto, pennellati di pathos, grossolani ma pur sempre autentici. Proprio questo, questo stare attento ai particolari, è il più grande merito di “Ride”, opera prima di Mastandrea. Il merito di usare la dialettica dei gesti, di usare l’osservazione senza renderla mai ausiliaria, un film più da guardare che da sentire, proprio come la sua protagonista che non finisce mai di controllare allo specchio lo spazio vuoto e divaricato delle sue lacrime che si sforzano ad uscire o come il fratello di suo marito ormai morto che mangia in un piatto vuoto per simulare impeti e situazioni quotidiane altrui.

Identificazione Regista

Allora “Ride” non è solo un film sull’identificazione dei suoi personaggi davanti alla presenza “eseguita ed imitata” di un defunto, ma un film sull’identificazione del nostro sguardo con il mondo-cinema che finisce sempre poi, sul finire, nell’identificarsi con il proprio spettatore. Essere dentro al cinema, e esserne fuori filmandolo pur restando dentro ad uno schermo, questo è il compito non solo dello sguardo, ma di un attore che con il suo repentino cambio di rotta sembra padroneggiare questa uscita-entrata a metà.

Un film riuscito a metà

A metà perché Mastandrea padroneggia per bene delle tre storie che ci “accadono” davanti solo la prima rinchiusa dentro quattro mura, la storia di una donna e di un figlio alle prese con le proprie lacrime assenti, e si dimostra più legnoso, più meccanico e diroccato in altri momenti, in altre storie, quella di un padre di due figli che hanno preso due strade diverse (il secondo dei due marito della protagonista ormai deceduto), “proprietario” di un lutto e della fabbrica che ha segnato per sempre il destino del suo figlio più amato, padre e marito. E’ qui che vengono fuori tutti i complessi dei due quarti dell’opera “Ride”, che risulta divisa e stonata. “Ride” è la prova filmata e riempita (quasi) di tutti i complessi delle opere prime che rischiano di bruciarsi nella sceneggiatura con scelte e stilemi più di scrittura che di sguardo.