San Martino, tradizione dell’antica civiltà contadina garganica
Ogni anno, l’11 novembre, ricorre la festività di San Martino. Antonio Monte ci racconta i vari aspetti della tradizione dell’antica civiltà contadina garganica
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Ogni anno, l’undici novembre, viene ripresa, in parte, una vecchia tradizione che consiste nell’offrire ai cittadini presenti una fetta di pane pugliese imbevuta di vino e cosparsa di olio novello e di alici salate sotto aceto. Il tutto accompagnato da un buon bicchiere di vino. Vino e pane sono distribuiti da donne vestite con abiti d’epoca che ricordano quelli indossati dalle massaie appartenenti alla vecchia civiltà contadina locale. In contemporaneo, un gruppo folk del luogo si esibisce con canti popolari.
Tale manifestazione, a Sannicandro garganico, si svolge nel quartiere San Martino, luogo dove si trova una chiesetta amministrata da oltre due secoli dalla famiglia Di Maso emigrata negli anni cinquanta in Canada. Tale famiglia, di padre in figlio, continua a interessarsi del suo mantenimento, rendendola disponibile alla cittadinanza per l’occasione.
Una volta, la tradizione veniva tenuta viva grazie all’intervento di tutta la cittadinanza che condivideva entusiasmo e la parte migliore dei propri prodotti. In piazza vi era un mulino usato per la spremitura delle olive. Il primo boccale di olio ottenuto veniva offerto al Santo di modo che la luce della lanterna posta nella chiesetta rimanesse sempre accesa.
Vi era anche una taverna e per l’occasione l’oste bandiva una tavolata con grandi boccali di vino novello, in rispetto del detto “a San Martino ogni mosto diventa vino”. I clienti, di rimando, portavano i loro prodotti. E così iniziava la festa.
Nel pomeriggio, ricoperto da un mantello a ruota e sopra un cavallo bianco arrivava il boscaiolo. Era seguito da un mulo e un asinello carichi di legna e sacchi di carbonella, ma anche di sacchetti di castagne, di noci e di fave. La piccola carovana veniva accolta, all’ingresso del paese, dai ragazzi che festanti incitavano le bestie a salire la scalinata fino alla piazzetta, in un fragore misto di risate e ragli.
Una volta raggiunta la piazza, il boscaiolo liberava le bestie dal carico, le legava e le governava attaccando al muso di ogni animale una sacchetta piena di paglia unita a un pugno di biada. Dopo allestiva un grosso falò suscitando la curiosità e l’interesse dei bambini. Dallo spezzare delle frasche secche alla sistemazione dei tronchi più robusti, come ad ammirare l’edificazione di un piccolo castello. Il falò, il suo calore e la sua luminosità, rappresentavano simbolicamente l’estate, il miracolo del Signore che concedeva al Santo di riscaldare i poveri. Da qui, i famosi leggendari “tre giorni d’estate di San Martino”.
Anche le donne facevano la loro parte. Intagliavano le bucce delle castagne per arrostirle direttamente sul fuoco. Mentre ne sbucciavano completamente altre per cucinarle in un grosso recipiente con acqua, sale e foglie di alloro. Le fave venivano mondate a una estremità per evitare che scoppiettassero, prima di essere cotte nelle ceneri calde del falò.
I pastori, invece, portavano panzerotti e pizze ripiene di ricotta e cucinate nei forni a legna. Al boscaiolo e alle donne si univano il fornaio e l’ortolano che portavano la pizza fatta col ripieno di cipolle tenere, uva secca, alici sotto sale e un pizzico di pepe. Il cacciatore, poi, s’impegnava per quella giornata a portare l’oca migratrice. Spesso però veniva rimpiazzata da quella che lui stesso allevava con cura, cucinata col ripieno di pane e formaggio grattugiato, sale, olio, aglio, prezzemolo, chicchi di uva secchi e una spolverata di pepe.
Il giorno di San Martino, non mancava in piazza neppure la partecipazione del pescatore che contribuiva con acciughe sotto sale. Nelle taverne, ad ogni modo, un tempo, le acciughe erano presenti per un duplice motivo. Il primo, perché essendo salate, una volta offerte alla clientela, alimentavano la sete e quindi inducevano un maggiore consumo di vino. Il secondo perché messe in recipienti di terracotta e ricoperte di aceto e olio producevano uno sgradevole odore tanto da allontanare gli insetti nocivi dalle botti. Si racconta che una sera di San Martino, un cliente ubriaco svuotò il contenuto del recipiente di terracotta su una fetta di pane. La leggenda narra che l’aceto si trasformò in vino e le acciughe alterate acquistarono un sapore prelibato.
Da qui il detto sannicandrese “pane, olio, vino e acciuga”.
Tradizione legata a S. Martino era anche la corsa dei sacchi. Spettacolo che si faceva assai divertente, quando i protagonisti, passati prima dalle taverne, erano stati buoni bevitori. Altra attrazione era la famosa cuccagna: un grosso palo unto di grasso, sulla cui cima penzolava il sacco di San Martino pieno di prodotti stagionali. Le coppie appena sposate, in quel giorno, preparavano piccoli taralli (biscottini) fatti di uova, farina, zucchero e semi di finocchi selvatici, inzuppati poi nel vinello. Gli amici e i parenti a tarda notte visitavano le abitazioni degli sposini portando loro un braciere fatto di stagno o di ottone e colmo di brace presa dal falò. Musica, balli e canti di stornelli con rime inventate al momento assicuravano allegria.
Portare il fuoco in casa, oltre a purificare l’ambiente, significava soprattutto tenere sempre vivo il calore del rapporto di coppia.
San Martino è il Patrono dei soldati, dei viaggiatori, delle fiere di bestiame, dei cavalieri e dei cavalli, dei sarti, dei sommelier e dei cornuti. Dei cornuti perché le bestie presenti alle fiere erano spesso animali con corna, ma anche perché 11/11 numero che corrisponde alla data del giorno di San Martino, indicato con le due mani simboleggerebbe le due corna.
A San Martino
finisce di seminare il contadino/che senza aiutanti/copre da solo le sementi/si arrampica sulle montagne/per raccogliere le castagne/fa l’oca cucinata/per essere spolpata/prega con tono stanco/sperando che l’osso risulti bianco/spacca tanta legna/pota e zappa la vigna/per ottenere il buon vino/da offrire a grandi e piccini a San Martino. (A.M.)
San Martino in tavola…
La ricetta dei panzerotti è molto antica. Ma non ancora irreperibile, grazie alla memoria di una nonnina novantenne che orgogliosa permette di preservarla: “per ogni uovo occorre un cucchiaio da tavola di zucchero e uno di olio, – ci confida,- e farina tanta quanta ne serve per ottenere un impasto morbido. Si lascia lievitare fino a vedere raddoppiata la pasta. Dopodiché, – continua, – bisogna tagliare la pasta a quadretti di dieci centimetri e nel mezzo mettere la ricotta, lo zucchero, la polvere di cannella e di garofano. A questo punto i quadretti vanno piegati e chiusi. Attenzione, – aggiunge -, schiacciate bene il bordo con le dita unte di olio, cosicché il ripieno non venga fuori. Cucinare nel forno o friggerli nell’olio girandoli continuamente per evitare che crepino…e poi vedete che vi mangiate!”
San Martino, diventato monaco, viveva di questua ricevendo frutta secca e pesciolini, le acciughe appunto, che i pescatori offrivano in grande quantità poiché invendute. Dalle acciughe, il Santo ricavava una salsa, detta con una parola latina “ garum” . La ricetta copiata dai romani quando San Martino faceva parte del loro corpo di cavalleria doveva essere antichissima, in quanto “garon” era termine usato per definire piccoli pesci già ai tempi dei greci. Secondo la ricetta, le acciughe venivano ricoperte di aceto e erbe aromatiche e fatte macerare per circa un mese. Il brodo ottenuto e scolato veniva utilizzato come salsa per condire molte pietanze.
Tra magre verità, credenze popolari e magiche leggende
– La carne dell’oca, grassa e nutriente, è adatta a sostituire la carne del maiale, quindi era considerata ottima scorta di proteine per il digiuno natalizio che iniziava il giorno successivo a S. Martino.
– Il Santo dopo la Sua conversione al cristianesimo non tollerava simbologie pagane. Tra queste, le oche stesse, scelte per vigilare l’Olimpo.
– La popolazione voleva eleggere San Martino a Vescovo, il quale, per restare fedele al monastero, era piuttosto deciso a rifiutare tale nomina. Corse allora a nascondersi in una stalla piena di oche, che alla sua vista fecero un tale baccano da svelarne il nascondiglio.
– Le ossa spolpate dell’oca cucinata erano usate come previsione meteorologica: se risultavano bianche, l’inverno sarebbe stato mite e corto, se invece scure l’inverno sarebbe stato lungo e rigido.
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Le vecchie tradizioni sono archivi di cultura del tempo e del luogo, abbiamo il dovere sostenerle perché il folklore arricchisce il turismo locale.
Questa antica tradizione andrebbe ripresa dalla popolazione unita ai più piccini affinché il loro entusiasmo e la loro ingenuità maturino, come avviene per l’olio e per il vino, da San Martino.
Antonio Monte
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