5 Ottobre 2015 - 21:34

Shirin Neshat, visione di un Islam non convenzionale

shirin neshat

Shirin Neshat, l’artista iraniana che racconta la cultura con il corpo. La dicotomia uomo/donna è il suo messaggio più forte. Prossimo speciale Donne senza uomini 

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Shirin Neshat, nata a Qazvin, in Iran, nel 1957, ma cresciuta in Occidente, lavora nel campo dell’arte visiva contemporanea, analizzando le difficili condizioni sociali all’interno della cultura islamica, con particolare attenzione al ruolo della donna, ma ribadendo sempre un punto di vista esterno, da esterna.

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Shirin Neshat e la visione di un Islam non convenzionale

Shirin Neshat si è affermata sulla scena internazionale dell’arte contemporanea per le sue foto di donne musulmane sensuali e armate, per i suoi ritratti di corpi femminili interamente ricoperti da calligrafia persiana. Nei suoi lavori l’artista aggira la stereotipata visione occidentale dell’Islam, in una ricerca anticonvenzionale sull’identità delle donne musulmane nel mondo e sul significato socio-politico del corpo femminile nelle società contemporanee. Sostanzialmente in ogni società, in qualsiasi parte del mondo, il corpo della donna è politico.

E il corpo è prevalentemente il soggetto/oggetto della cultura islamica, che ritroviamo nelle foto, nei video e nella semantica di Shirin Neshat: corpi velati, sottomessi, corpi martiri (maschili e femminili), vittime di violenza e del terrorismo.

Nella serie Women of Allah, Shirin Neshat non sonda l’aspetto politico del velo, ma il non tanto scontato interrogativo di come possa una donna velata relazionarsi con il mondo esterno: il velo è indistintamente privato e pubblico, interno e esterno. Così il velo diviene l’emblema dell’ambiguità latente, della visione dualistica del femmineo, dell’ insita dicotomia che da un lato limita la donna e dall’altro la protegge dall’essere considerata un oggetto.

shirin neshat Per Shirin Neshat l’artista è colui che attinge dalla realtà per sublimarla in arte. Questa linea di pensiero trova espressione nel bisogno di andare oltre i tradizionali mezzi – testimonianza anche di un retaggio patriarcale dell’arte – per indagare i nuovi linguaggi multimediali: “L’idea è di realizzare una contaminazione tra video, computer e corpo, per rendere il pubblico realmente partecipe dell’opera”. Shirin Neshat ha così diretto anche video, tra cui Anchorage (1996), Shadow under the Web (1997), Turbulent (1998), Rapture (1999) e Soliloquy (1999).

Poi nel 2009 un nuovo importante traguardo: il Leone d’Argento per la miglior regia al 66º Festival di Venezia, con il lungometraggio Women without Men, trasposizione dell’omonimo romanzo di Shahrnush Parsipur. Il film, che segna il debutto alla regia di Shirin Neshat, è ambientato nella Theran del 1953, durante il conflitto per emancipare la Persia dalle potenze europee.

Nel film quattro donne di diversa estrazione sociale lottano quotidianamente per emanciparsi dalla cultura patriarcale iraniana e dagli uomini adibiti a controllarne le vite. Donne senza uomini realizza il senso di oppressione, lo rende vivido, palpabile ed intollerabile, soprattutto nell’intensa figura di Zarin, una prostituta rassegnata ad essere stuprata dagli uomini. Le quattro storie di isolamento e di esclusione si intrecciano ad un passo dalla democrazia, sfumata con un golpe militare organizzato dalla CIA. Questo è il momento in cui le quattro eroine lasceranno la città per una speranza: una terra bucolica dove dimenticare i soprusi e la violenza. La fuga è così la loro unica possibilità per sopravvivere al soffocamento dello sguardo maschile, che scruta, giudica, controlla, abusa.

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