Stranger Things 2: la recensione dell’attesa seconda stagione
La recensione della tanto attesa seconda stagione di Stranger Things dei Duffer Brothers a più di un anno di distanza dal primo capitolo
Quando si iniziò a parlare di Stranger Things, come tutti i fenomeni che hanno bisogno di essere accattivati e di essere discussi, passò del tempo, qualche mese, prima della sua totale affermazione nell’ordine dello spettacolo. Due giorni fa, dopo più di un anno, Stranger Things torna più forte della prima stagione, più forte perché la dimensione che ha creato, oltre a quella del racconto, è quella nata dall’assemblaggio di più campi, dalla pubblicizzazione dell’evento più che dalla passione reale che ha contaminato gli spettatori. Stranger Things è un grande fenomeno mediatico, e non è un caso che fino a poco tempo fa, prima della seconda stagione approdata felicemente su Netflix, nessuno ancora avesse visto la prima stagione, altri ne erano invece solo a conoscenza da lontano. Con il senno di poi i Duffer Brothers hanno osato tantissimo, o trasversalmente davvero poco, nel fomentare e nell’accattivare anche un pubblico che non era ancora pronto, o che invece non voleva esserlo, per paura di rimanere deluso nuovamente in un panorama serial che lascia tante speranze, ma poche concretezze. La genialità dei Duffer Brothers allora più che nell’aver creato un mondo nuovo nella prima stagione, troppo fittizio e un po’ di cartapesta, bidimensionale nella narrazione e nella regia ma capace di avere un cuore, è stato quello di ritornare con una seconda stagione e con un episodio in più aiutati sì dal momento, dimostrando però profonda originalità a dispetto di chi non credeva in un progetto del genere.
I due piani della visione
La questione diventa difficile quando si inizia a guardare Stranger Things di nuovo dall’inizio, per poi godersi la seconda stagione. Diventa difficile perché lo si capisce sin dal primo episodio di un anno e mezzo fa, che Stranger Things lavora su due piani. E’ infinitamente complessa e la si può godere comunque in tutti e due i casi. Il primo caso riguarda le nuove generazioni, o chi del cinema ne sa ben poco. Allora sì che la prima stagione funziona benissimo, perché i personaggi non sono mai affettati completamente dal male, ma si combinano e si evolvono solo con l’amore, senza eccesso. Nel secondo caso ci sono gli spettatori che di queste cose ne hanno le tasche piene, e che hanno visto fin troppa fantascienza da poter sperare in qualcosa di originale.
Le citazioni ci sono sì, ma non hanno quel mordente, non hanno quella profondità, la regia è un po’ meccanica e i tempi non sono del tutto orchestrati bene. Si imputa il fatto che la storia sia solo di apparenza e che a parte il racconto di formazione che ha un vero cuore, l’horror fantascientifico sia un po’ preimpostato, non ha la smania di creare una mitologia e pecca a volte nell’essere stringato. Ma anche nel secondo caso ci si aggrappa al cuore e alle emozioni, anche di chi è scettico. Ecco allora che i due casi si incontrano, il primo spettatore e il secondo, e si inizia con la seconda stagione. Ed ecco il miracolo. La seconda stagione di Stranger Things è una di quelle cose che poche volte possono passarci davanti agli occhi. E’ uno di quei regali insostituibili, perché accontenta finalmente i due casi contrastanti, e chiunque. Non solo accontenta, ma lascia senza fiato e con la paura che finisca troppo presto o troppo tardi per i protagonisti. Riesce ad amalgamare con una regia evoluta e in continua evoluzione. Il racconto di formazione è talmente forte, la fantascienza è così tridimensionale, da rendere completamente fruibile ed elastico il citazionismo smodato ed incorruttibile. Perché di citazionismo e di grandi personaggi traslati, Stranger Things ne è pieno fino alle orecchie con un fare quasi tarantiniano che però rifiuta l’autocompiacimento per la passione vera.
Stranger Things è una fusione di generi spettacolare, fantascienza anni ’80, sci-fi contemporaneo che rimanda ad Under the Skin di Jonathan Glazer, sottocultura underground alla Walter Hill de “I guerrieri della notte” e “Strade di fuoco”, fantasy classico, spionaggio, distopia, demoniaco e alle connessioni cerebrali delle fiction e delle serie tv di oggi che potrebbe far pensare a Sense 8. Si percepisce addirittura il mondo dell’avventura di Jurassic Park, l’horror più incalzante di William Friedkin de “L’Esorcista” o di “Carrie” di Brian de Palma, c’è l’azione di “Distretto 13- le brigate della morte” di Carpenter, e un Halloween che tutti vogliamo trascorrere tra le varie maschere slasher anni ’80 che hanno il volto di Michael Myers di “Halloween”. Nel personaggio di Will un horror venereo che forse si affaccia più ad un Cronenberg che agli altri. Dire che i riferimenti siano finiti sarebbe stupido, ma Stranger Things sa rendere tutto nuovo e sa creare una fenomenologia di quello che racconta, sa creare una storia meno compromessa del Sottosopra e ci spiega con una curiosità intelligente il comportamento del Male. Stranger Things è una macchina ad orologeria ricca di eroi, di suspense hitchcockiana, e quando ha paura di incartarsi, soprattutto nelle ultime tre puntate, gestisce toni e montaggio con una capacità inaspettata. Sì, tutti insieme come sempre alla fine, a lottare per un bene comune, tre racconti diversi che portano ad unico arrivo, e dopo la soluzione ad un ballo di fine anno tanto atteso.
L’amore e la curiosità per i personaggi nuovi e l’evoluzione dei personaggi vecchi
I personaggi nuovi sono tanti, c’è Eleven che si avvicina sempre di più ad un’idea di “Heroes” vintage, che si guadagna anche una puntata tutta per lei e per nessun altro, c’è sicuramente l’evoluzione di tutti non solo nello star system hollywodiano, Winona Ryder è una conferma. C’è un rapporto paterno sperato e anestetizzante per il poliziotto Hopper, c’è il gruppo solito formato da Mike, Lucas e Dustin con un’aggiunta che strizza l’occhio all’It di Stephen King, ci sono Jonathan e Nancy meno appesantiti e più pronti alla verità del loro rapporto, c’è Steve che i Duffer Brothers amano così tanto da regalargli momenti di vero coraggio e altri di semplice divertimento. Insomma, ci sono tutti e non resta che sperare che ci siano ancora per molto.
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