‘Il ragazzo dai pantaloni rosa’, la madre: “Mio figlio si è suicidato a 15 anni”
Si chiamava Andrea ma è passato alla cronaca come “Il ragazzo dai pantaloni rosa“: la sua storia attraverso una lettera scritta da sua madre, Teresa Manes
Si chiamava Andrea ma è passato alla cronaca come “Il ragazzo dai pantaloni rosa“.
I suoi compagni di scuola lo chiamavano così per via di un jeans macchiato di rosa in lavatrice che il ragazzo indossava tra i banchi. Ed era proprio così che i suoi coetanei avevano intitolato una pagina Facebook, nata per prenderlo in giro. Quei commenti finiti in rete avevano fatto precipitare Andrea in una spirale di dolore e solitudine, fino a condurlo ad un gesto estremo.
“Andrea è uno dei capitoli della mia vita, il più bello, quello la cui fine non vorrei mai leggere, ma è finito“, racconta sua madre, Teresa Manes. Il ragazzo aveva solo quindici anni e sei giorni quando, il 20 novembre del 2012, si è impiccato con una sciarpa nella sua casa di Roma. “Quando un figlio si suicida vieni ingoiato da una valanga di sensi di colpa“, prosegue la Manes che da anni porta avanti una dura battaglia contro il cyberbullismo. Ed è proprio lei che, dopo anni dalla tragedia, scrive una lettera per il suo Andrea, pubblicata da Vanity Fair.
La lettera: “Avrei potuto fare qualcosa per evitare quest’epilogo?“
“Sono passati circa 2 anni e mezzo dal giorno in cui mio figlio si è impiccato, decidendo di porre fine ai suoi tormenti e lasciando me nel risucchio di una voragine. Perché non è che il tempo passa e il ricordo sfuma, anzi… Dopo la morte di un figlio che decide di «farla finita» occorre far pace col proprio cervello.
E vi assicuro che dare spazio a delle immagini fisse, imparare a parlare da sola (comunicando con i propri pensieri, più o meno logici) non è cosa facile.
Ma se è vero che non sono la sola a essere scelta da quella casualità bastarda della vita a sopravvivere ad una disgrazia simile è anche vero però che, nel pieno della consapevolezza di quel che scrivo e dico, sono una delle poche madri che hanno avuto la fortuna di arrivare alla sublimazione di un dolore senza fine.Ho la capacità, in effetti, di entrare ed uscire dallo stesso sperando che tutto questo, implicante, al contempo, un intimo logorio dell’animo (già duramente provato dalla drammaticità degli eventi che ci hanno riguardato), venga da me lungamente gestito con quell’equilibrio, a fatica, comunque, recuperato.
Che poi un equilibrio nella comune accezione del termine non si recupera più…
Perché c’è un pensiero (fra tutti) che mi danna ed è il senso di colpa che avanza come il mare che corrode la costa. Quanto sono stata presente nella vita dei miei figli? Quanto sono stata inconsapevolmente cieca davanti a una sofferenza così devastante? Avrei potuto fare qualcosa, qualsiasi cosa che avrebbe evitato quest’epilogo irreversibile? Eppure ho cercato di crescere i miei ragazzi al rispetto delle regole della buona educazione, mettendo in atto delle buone pratiche, condividendo assieme al mio ex marito (ma prima ancora padre amorevole) delle scelte che fossero ispirate al raggiungimento degli unici punti indiscussi: la serenità e il senso di appartenenza di Andrea e Daniele. Il nostro essere comunque FAMIGLIA, anche se in un senso nuovo e diverso. Il dialogo, quello non è mai mancato perché siamo stati sempre convinti assertori della forza espansiva del confronto.
Forse, però, il mio errore è stato proprio nella TECNICA del confronto: di quello volto non tanto all’acquisizione e alla comprensione del punto di vista dell’altro quanto piuttosto all’imposizione di un modello di comportamento che fosse consono al mio volere e piacimento.
Magari quella «buona educazione» (da me continuamente pretesa) lo ha, prima, spaesato e, poi, piegato a quella parte di società feroce che non lascia sconti a nessuno? Che ti vuole bieco e impuro a tutti i costi, pena l’esclusione? Forse sarebbe stato un bene essere meno intransigenti, specie nella pretesa del galateo delle buone maniere e di quella della «eleganza» delle conversazioni.
Forse non l’ho rassicurato abbastanza quando mi confidava di vedersi brutto (ma brutto veramente), trascurando, per tal modo, un disagio che si stava annunciando? È L’ADOLESCENZA!
Questa, la puttanata che mi dicevo per quietare la voce della coscienza che, forse, ci aveva visto più lungo di me.
Oggi, il mio ruolo di presidente dell’Associazione Italiana Prevenzione Bullismo, la mia militanza nelle scuole, il confronto con altri genitori angosciati, il rapporto con le istituzioni, il dialogo con i ragazzi devo dire che mi aiutano ad andare avanti. Riconosco di essere spinta, in tutto quel che faccio, da un pensiero folle che mi guida: quello di resuscitare mio figlio. Già portando il racconto della nostra terribile storia che ho racchiuso nel libro Andrea – Oltre il pantalone rosa, un vero e proprio manifesto sul bullismo, è come riportare Andrea lì dove dovrebbe ancora stare, ovvero sia tra i banchi di una scuola.
L’incontro poi con la senatrice Elena Ferrara, prima firmataria del DDL sulla prevenzione del bullismo e del cyberbullismo (oggi al vaglio della Camera) forse è premonitore di un cambiamento.
Perché , oggi, dire: «Mio figlio è morto per bullismo» è come dire: «Mio figlio è morto per niente!».
E se la mia azione può anche in minima parte contribuire alla nascita di una legge che lo regola, beh… che dire… Sarà pure un pensiero folle quello che sostiene la mia azione ma, in fondo, solo se un sogno è sostenuto da una follia, quel sogno si avvera“.
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