Tra profumi e silenzi, ecco Cairano: il paese dei Coppoloni
Su una rupe isolata al centro dell’Alta Irpinia che domina la valle dell’Ofanto sorge il paese dei Coppoloni. Dai campi di grano verde ai vicoli del centro: seguiamo oggi il profumo del pane e saliamo nel silenzio di Cairano
Collocata tra la terra dei Lucani e quella dei Sanniti, tra la Campania e il tavoliere delle Puglie, Cairano è una terra di passaggio, un punto di transito tra i 2 mari della penisola che in passato metteva in comunicazione la Valle del Sele con quella del fiume Ofanto, che sovrasta e di cui controlla la valle.
Cairano è una “terra collocata tra altre terre al centro dei monti d’Italia”, come cantava Virgilio circa 2000 anni fa, in cui gli Outdoorini oggi si sono addentrati, nel pieno dell’aria salubre di primavera.
Ma è possibile emozionarsi per il verde di un campo di grano in primavera? Se si oltrepassano distese di verde infinito attraverso pendii dolci e morbidi come coperte, allora sì.
Camminiamo tra i campi coltivati a grano della primavera, il grano autoctono, quello antico, quello che si trasforma in pane solo con il lievito madre. Camminiamo dentro le sfumature bagnate del verde, delle spighe ancora acerbe che mostrano i chicchi dondolati di continuo dal vento. Siamo in mezzo al mare verde e mosso dei campi di grano dell’Irpinia.
E solo se in quel verde ci sei dentro, riesci a cogliere in pieno le parole di Van Gogh per cui “la Primavera è tutta grano giovane, verde tenero e meli in fiore”.
Niente meli però per noi, solo fiori di camomilla che lasceranno tra poco il posto a papaveri rossi e al giallo delle spighe mature, quando sembrerà di camminare in mezzo all’oro dell’estate. Poi verrà l’autunno bruno in cui questi campi saranno arati, sbriciolati e concimati. E poi sarà la volta del bianco inverno, in cui tutto sarà pura neve sotto la quale ogni chicco si nasconderà prima di germogliare ancora.
Il grano racconta le stagioni della vita e mostra quelle della terra.
Ma oltre il grano, ciò che dalla terra prende il meglio e pure la racconta è la vite, che ne ruba i segreti e li trasforma in vino. La via delle Grotte che ora attraversiamo è una pittoresca strada verso Cairano, dove gli abitanti custodiscono in vecchie cantine il famoso Aglianico del Vulture, definito dagli esperti il “barolo del sud”.
Continuiamo a salire lungo il fianco meridionale della collina che domina tutta la valle verde e che ci riempie gli occhi oltre la staccionata della strada.
Eccolo Cairano da lontano, solitario, che si erge sul punto sommitale di un colle a 800 metri di altezza e sembra da quaggiù “un’isola senza mare”. Si lascia adagiato sul fianco di una rupe e appare, quasi sospeso, un meteorite o una “balena che incanta”. Sotto, il panorama che spazia dal Partenio dell’alta Irpinia al Vulture del potentino con uno sguardo che arriva fino alla Puglia.
Siamo arrivati al “paese dei Coppoloni”, anche se non abbiamo ancora capito se i coppoloni sono quelle figure tozze date dai grossi mantelli e cappelloni a falde larghe con cui i suoi abitanti si proteggono dal freddo dell’inverno, oppure le nuvole a forma di coppole che si addensano sul punto più alto di Cairano visibili dai paesi attorno.
Comunque sia, dopo vicoli e vicoletti in salita e un gran silenzio fuori e dentro le case, siamo finalmente nel centro storico.
“Il barista fa cinque caffè al giorno, vende una cassa di birra e dieci bicchierini di Vecchia Romagna. A Cairano la piazza è il tetto di una casa, perché una piazza era un lusso che non si poteva permettere un paese di contadini poverissimi, abbarbicato su uno spuntone di roccia, dove il poco spazio disponibile serviva a farci misere case. Si tratta ora di vendere il silenzio, la luce, il buon cibo, la tranquillità, l’assenza di traffico e di inquinamenti vari. Qualcosa che ripesca il buono che c’era una volta nei paesi, senza il brutto che abbiamo alle spalle: le case fatiscenti, la mancanza d’acqua, la fame e la grettezza di una società chiusa. Forse Cairano avrebbe bisogno di appartenere non solo a se stesso ma a tutti noi, a tutti l’Irpinia.”
Così scriveva Franco Arminio quando si trovò a Cairano, in cui s’imbattè in tutti “numeri uno”: un prete, un vigile, un postino, un impiegato comunale, un ragioniere, un forno.
E noi oggi abbiamo trovato Antonio, proprietario di quell’unico forno che ha aperto circa trenta anni fa, quando da Milano, da grafico pubblicitario, arrivò a Cairano e se ne innamorò. Salì sulla stessa rupe dove siamo noi adesso con lo sguardo che affonda dentro il verde d’Irpinia e restò un intero giorno a contemplare l’alba e poi il tramonto. Fu un amore a prima vista e decise di restare tutta la vita.
Ma cosa spinge, gli chiediamo, un uomo vissuto in una città che per noi sembra essere il centro del mondo, a decidere di passare la sua vita al centro di quella valle e del suo silenzio?
Sarà stata quell’aria salubre che gli arrivava al cuore, il silenzio dei suoi 300 abitanti, le confessioni in solitaria su quella rupe fatte alle stelle nelle notti d’estate, la pace che ha provato quassù che l’ha sottratto improvvisamente dal tempo veloce e obbligato della vita e l’ha restituito a quello lento e più umano del puro vivere.
“Solo da quassù riesco a vedere il sorgere e nascondersi del sole insieme” ci sottolinea Antonio, che ha recuperato il tempo ciclico del giorno, delle stagioni, della vita che qui evolve ripetendo gli stessi percorsi.
Antonio non sapeva distinguere la farina dalla sabbia quando ha aperto il suo forno, che ci accoglie con una vetrina profumata e piena di cose buone. Ma la vita ci ricorda che quando ci credi tutto è possibile.
La scelta di Antonio di spendere la sua vita nella “terra dell’osso”, nel duro osso appenninico lontano dalla “polpa” allettante della costa, quella terra di mezzo in cui “i cristiani se ne vanno e imperversano i cinghiali” è la scelta di chi decide di fare quello che Vinicio Capossela chiama un “cammino dei siensi”, un cammino cioè verso sé stessi, verso ciò che veramente, semplicemente e autenticamente ci appartiene. .
Cairano è un nulla dove Antonio ha ritrovato tutto, è un non-luogo che ha più identità dei luoghi standardizzati a cui siamo abituati, è un luogo “senza bombardamenti” di vario genere che minano la nostra serenità e che può diventare una dimora permanente per chi cerca di recuperare sé stesso e crescere in umanità.
“Coloro che non hanno radici, che sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale”.
ERNESTO DE MARTINO
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