24 Aprile 2020 - 14:00

Coronavirus: il nemico invisibile e l’individuo sotto assedio

coronavirus

L’invisibilità del nemico contro cui combattiamo è in realtà pienamente visibile nel dolore che provoca e nella paura che alimenta. L’emergenza da contagio Coronavirus rischia di minare per il medio lungo-termine le relazioni?

Sempre più di frequente ci capita di sentire l’affermazione dal tono rassicurante: “So chi è il mio nemico”, come se conoscerne l’identità, il volto o l’entità aiutasse ad esorcizzarne il timore o renderci preparati a sferrare un attacco di difesa. Sempre più di frequente in questi giorni ci sentiamo dire che combattiamo un nemico sconosciuto, e forse per questo ancor più insidioso, che entra silente nelle nostre case imponendoci il ripensamento delle relazioni interpersonali. Il distanziamento sociale come misura preventiva ai tempi dell’emergenza da Coronavirus, rischia forse di minare per il medio-lungo termine le relazioni?

Il “nemico invisibile”, accezione utilizzata dal Presidente Trump per dare una connotazione al virus e all’epidemia globale che ha scatenato, compromette le interazioni sociali e il nostro modo di percepire l’altro?

In un generale ed indifferenziato isolamento, guardare le persone che ci circondano con immotivata ostilità e diffidenza è un rischio altamente probabile. L’ipotesi della percezione dell’altro come nemico più prossimo ci riporta alla mente il saggio sulla “società liquida” di Zigmunt Bauman inducendoci ad una riflessione: avremmo ancora voglia, una volta superata la fase emergenziale, di sentirci parte di una comunità piuttosto che semplici individui?

Il concetto di comunità, dal latino communitas, indica, l’essere comune, la comunanza e, in particolare, un insieme di persone unite da relazioni o vincoli, che formano una unità omogenea. Ecco, quando questa visione entra in crisi, ciò che resta è individualismo sfrenato dove l’altro è percepito non più compagno, fratello, amico ma come un’antagonista da cui guardarsi. La “liquidità” di una società di questo tipo mina le basi dei valori comunemente condivisi che fungono da bussola del nostro agire e del nostro orizzonte di senso rendendoci insofferenti, inappagati ed eternamente insoddisfatti. L’isolamento fisico, emotivo e psicologico che siamo stati costretti a sperimentare negli ultimi mesi potrebbe forse solo alimentare questa condizione esistenziale. L’impressione è che questo senso di frustrazione non sia il prodotto esclusivo dell’esperienza della pandemia che stiamo vivendo ma il risultato di una “società di individui isolati” preesistente. La socialità è ridotta a mera parvenza digitale affidata al web, ai social, alle app di messaggistica istantanea, da ben prima dell’emergenza sanitaria.

Inoltre in una fase in cui la temporalità sembra sospesa e la progettualità forzatamente inoperosa ed irrealizzata, l’individuo si sente come sotto assedio, oppresso, impotente. Come se la sospensione, l’inattività contribuisse a spersonalizzarci, facendoci perdere di vista i nostri obiettivi e la nostra identità. Nell’immobilità dell’eterno presente che viviamo ad essere minate sembrano proprio le aspirazioni personali, relegate nel limbo di una precarietà che non è affatto nuova.

Una delle domande frequenti che in questi giorni risuona come un’eco violenta di casa in casa, famiglia in famiglia è “cosa aspettarsi dal dopo emergenza Coronavirus”.

Crisi annunciata o chance per il futuro?