Fargo 02×10 (Finale di stagione) – Analisi e Curiosità
Finale di stagione di Fargo2 e i personaggi continuano a lasciare interrogativi. Molti si collegano alla prima stagione, ma Lorne Malvo è tra loro?
[ads1]Il finale di stagione, per gli appassionati di Fargo, dovrà essere smaltito nel tempo provando a non esasperare l’attesa della terza stagione già annunciata. Da un tempo storico vicino torna nel passato per poi terminare in un futuro: Fargo è la storia dell’umanità che esprime l’incomunicabilità, la sofferenza, le incapacità e le mancate realizzazioni attraverso un male sempre più radicale e insensato.
[dropcap]S[/dropcap]iamo ormai in confidenza con i personaggi che hanno popolato Fargo2, portando ad un finale di stagione che ha privilegiato il dialogo in un tempo dilatato, rivelando e risolvendo alcuni momenti narrativi più volte lasciate in sospeso. Dopo la strage di Sioux Falls, i Gerhardt sono ormai storia superata; la mafia così subentra a Fargo, mentre Ohanzee diventa l’obiettivo della polizia del Minnesota, eternamente in fuga e capace di svincolarsi da ogni situazione, inseguitore della coppia Peggy-Ed.
I due, consumati dalla paura di non farcela e di restare impigliati nei meccanismi del male, si realizzano in questa narrazione come le vittime che cercano altre vittime: Peggy richiama a sé alcune caratteristiche di Ohanzee, perché entrambi ricuciono le dinamiche per un riscatto tanto psicologico quanto storico, tanto intimo quanto universale. Sono, infatti, gli unici personaggi che lasciano diversi interrogativi: Ohanzee potrebbe essere Lorne Malvo in Fargo1? Molte cose ce lo ricordano, tra cui la frase: “Uccidi e vieni ucciso”; mentre Peggy rimane un personaggio oscuro, che scompare dalla scena restando incompiuto, sia in quanto donna degli anni ’70 sia in quanto maschera filmica.
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[dropcap]I[/dropcap]n questa seconda stagione il colore nella sua dimensione contrastante è il valore aggiunto alla storia; è un elemento che incide nella narrazione, nell’evoluzione dei personaggi, nel gioco dicotomico che è riflesso della guerra tra mafia e Gerhardt, tra umanità e disumanità, tra l’illusione di essere nella realtà e tragica contemplazione del falso, del surreale o di un paradosso. Una fotografia che comunica attraverso i contrari è istanza autoriale, vertice verso cui mira il discorso. Nella dialettica si formula il pensiero, così come la grammatica della favola ci insegna. Questa necessità di un linguaggio universale è la chiave di lettura di questa nuova serie prodotta dai Coen, due registi che conoscono bene il cinema, così come si dichiara implicitamente nei dialoghi finali.
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[dropcap]G[/dropcap]iunti alla fine di Fargo2, la regia è il momento di sintesi che ha scritto il senso delle azioni attraverso una pluralità di punti di vista, alternando diversi registi alle singole puntate: questa scelta ha portato a delle strategie artistiche diverse, proponendo simili stili (come lo split screen), ma differenziando ogni volta. La complessità della messa in scena di Fargo offre, dunque, la possibilità di seguire una ritualità della composizione visiva e una capacità di seguire un movimento melodico, se tutti gli elementi devono portare all’unisono delle immagini (ad esempio la bellissima sequenza finale in Loplop), è anche armonico, quando nel contrasto si misura la sintesi perfetta. La regia di Fargo2 è come una partitura musicale, che combina personaggi ed eventi tra loro, azioni e reazioni, per avere un risultato finale compiuto ed equilibrato.
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[dropcap]L[/dropcap]a musica poi, quella intesa come colonna sonora, è anche personaggio in Fargo2. Inonda le immagini. Le drammatizza quando sfiorano cambiamenti che ricordano l’essere, mentre procede con il soul se vuole dare un ritmo grottesco alle azioni prive di senso. L’insensatezza del male, espressa in maniera orizzontale e verticale, è anche nell’uso “insignificante” delle musiche, che sembrano sempre troppo distanti dalle immagini, eppure gradualmente il grottesco indossa il tematismo sonoro della violenza, della guerra, della mediocrità.
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[dropcap]I[/dropcap]naspettato l’epilogo della mafia di Kansas City, soprattutto per Mike Milligan, che da capo e stratega della condotta mafiosa, viene rinchiuso in un ufficio dove diventa un “allievo” da svecchiare e portare dentro la realtà nuova della mafia, attraverso una strutturazione organica delle infrastrutture.
Siamo nel sogno di Betsy Solverson, la quale nella fase allucinatoria causata dalla cura sperimentale che sta seguendo per guarire dal cancro, intravede un futuro che cerca di essere positivo, ma viene continuamente interrotto in questo tentativo di portare il sasso sulla cima: il sasso di Sisifo è metafora del continuo sforzo dell’umanità di emanciparsi, di purificarsi, di salvarsi, di comprendere. Il male però, continua a diramarsi e ad interrompere questo nobile tentativo di comprendere il senso finale dell’esistenza umana, forse l’uomo non è in grado di comprenderla nella sua finitezza (ricordiamo l’irruzione in Fargo2 del mondo alieno)?
Infine, il cinema. Nella confessione finale di Hank Larsson, spiegando i segni ritrovati dalla figlia in una stanza della sua abitazione durante la sua assenza, si passa dal discorso filmico sul male alla teorizzazione: da dove deriva il male, perché la guerra? Hank risolve questo dilemma, fortemente condizionato dalla sua esperienza di americano in un luogo privatizzato di ogni espressione umana (di cui il Minnesota ne è simbolo), evocando la leggendaria Torre di Babele contenuta nel libro della Genesi, ma parlando indirettamente anche del cinema. Nell’impossibilità degli uomini di comprendersi tra loro, perché ostacolati dal linguaggio, il segno può diventare la soluzione, una forma di salvezza.
Se si raggiunge l’universalità della conoscenza attraverso i segni, studiando come trovarne uno per ogni dimensione dell’espressività umana, forse la violenza e tutta la banalità del male potrebbero affievolirsi. Le immagini avrebbero insito il riscatto dell’umanità, lo sradicamento dell’incomprensione, e finalmente immaginare la comunicabilità e l’espressività dell’essenza universalmente condivisa.
Sarà anche per questo senso di catarsi collettiva che, in Fargo2, si passa dalla dimensione intima della prima stagione alla condizione corale della sofferenza umana, nel continuo bisogno di difendersi dagli attacchi esterni per la legge dell’autoconservazione.
Il cinema avrebbe, dunque, il potere rivoluzionario della lotta alla banalità del male? A voi la risposta.
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