Francesco Rosi e l’eco di Uomini contro
Francesco Rosi nasceva nel 1922. Una carriera lastricata di successi, che lo consacrano maestro di un nuovo filone cinematografico. I suoi film-inchiesta oggi griderebbero non solo di Parigi. Ci parlerebbero ancora di “Uomini contro”. Accade oggi
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Francesco Rosi dagli studi in Giurisprudenza passa al sogno di una carriera come illustratore di libri per bambini, ma, incontrato Luchino Visconti, a Roma viene guidato alla sua vera vocazione: il cinema. Inizialmente Rosi diventa l’assistente di Visconti per La terra trema (1948), poi fa la sceneggiatura di Bellissima (1951) e infine collabora per Senso (1953). Nel 1956 gli viene affidata la co-direzione, insieme a Vittorio Gassman, del film Kean – Genio e sregolatezza.
Poi, due anni dopo, nel 1958, arriva il suo primo lungometraggio La sfida, un successo di critica e di pubblico. È quella la strada, ora Rosi non ha più dubbi. Se La sfida è impregnato del neorealismo del primo Visconti, il successivo I magliari (1959), con Alberto Sordi nel ruolo di un immigrato nella Germania Ovest, ha un taglio teso ai nuovi approdi del realismo. Ma è nel 1962, con Salvatore Giuliano, che nasce lo stile di Francesco Rosi, alimentato dall’interpretazione a vario titolo di artisti internazionali, a volte non professionisti o del suo attore-feticcio Gian Maria Volontè.
Con Salvatore Giuliano nasce il filone del film-inchiesta. Dopo i lunghi flashback sulla vita di un malavitoso siciliano, arriva la denuncia sulle collusioni dello stato nello sfruttamento edilizio partenopeo, in Le mani sulla città (1963), pellicola premiata con il Leone d’Oro al Festival di Venezia.
Questi gli esordi che hanno consegnato Francesco Rosi alla storia del cinema, contraddistinguendolo per lo stile asciutto e pungente, per l’onestà intellettuale, per un “fare cinema” d’autore e allo stesso tempo popolare. Rosi incarna il cinema intriso di critica sociale: il suo è cinema politico e d’impegno. Il suo cinema parla al pubblico, gli tiene aperti gli occhi anche quando preferirebbe non vedere, gli urla anche quando preferirebbe non sentire. Ed è un eco senza tempo, un baratro italiano, tra malaffare politico e deriva sociale. A riguardo, nel 2012, all’invito del “discepolo” Tornatore di ritornare dietro la camera, Francesco Rosi così rispondeva: ”… in quest’Italia è difficile fare cinema, la realtà si degrada così in fretta che il suo passo è troppo più frettoloso di quello del cinema. Rischierei di raccontare un paese che già non c’è più”.
Francesco Rosi nel 1972 aveva girato un film anche sulla scottante morte del presidente dell’Eni, per il quale si era avvalso della stretta collaborazione di Mauro De Mauro, giornalista siciliano che venne assassinato in circostanze mai chiarite, forse proprio per le indagini svolte. Il caso Mattei, dieci anni dopo i fatti, rappresenta un film inchiesta in corso d’opera, che assembla la cronaca, le interviste ed accurate ricostruzioni.
È degli anni settanta anche la sua accusa cinematografica alla guerra, ambientata nella Prima Guerra Mondiale: un’oratoria antimilitaristica su come la guerra sia destinata solo alla povera gente, mandata a morire in prima fila, in trincea, al posto dei signori della guerra, coloro che a tavolino hanno già deciso le loro sorti. Era il 1970 e Francesco Rosi presentò, il poi boicottato, Uomini contro, oggi così tristemente attuale.
Nel 2012 arriva l’ennesimo premio, il Leone alla carriera, e il discorso di premiazione si trasforma in una lezione sul cinema: ”Fare cinema significa contrarre un impegno morale con la propria coscienza e con lo spettatore. Gli si deve l’onestà di una ricerca della verità senza compromessi. Più ci si addentra nel reale e più si ha coscienza che la certezza del vero e del giusto non esiste. Ma quel che conta è la nitidezza della ricerca”.
Rosi è morto a gennaio, il 10 gennaio 2015, a 92 anni. Nel necrologio la figlia Carolina ha scritto: “Non fiori ma solidarietà per gli immigrati”, come da ultime volontà del regista. Un ennesimo esempio dell’incondizionato senso del vero e della “visione dell’altro”. Non dimenticando la storia italiana, quella de I Magliari.
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