Gli imperatori di Montanelli, apogeo e caduta
Gli imperatori romani di Indro Montanelli raccontati nella Storia d’Italia, vol.III, toccano l’acme del potere imperiale per poi sprofondare nei miasmi dell’irrilevanza storica
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E si parte, dopo una breve parentesi sulla città di Pompei e su Gesù e il cristianesimo, con la prima dinastia illustre, quella de I Flavi (30 a. C.-96 d. C.).
Vespasiano, allora, si staglia all’orizzonte con la sua concretezza di uomo di provincia.
Racconta Montanelli come l’imperatore di Rieti, nell’intento di riorganizzare il fisco, intraprese una via spicciola ma oltremodo efficace: lo affidò ai funzionari più rapaci e dissanguatori sguinzagliandoli, con pieni poteri, in tutte le province dell’Impero.
A rapina consumata (e qui sta il colpo di genio), Vespasiano richiamò a Roma i funzionari ingordi e, dopo averli elogiati per il loro operato, gli confiscò tutti i personali guadagni; soldi, quest’ultimi, che furono utilizzati dal callido imperatore per pareggiare il bilancio e per risarcire le vittime delle ladronerie.
Indro Montanelli, poi, sottolinea la filantropia dell’imperatore Tito che si trovò, nei sue due anni di regno, a fronteggiare catastrofi su catastrofi: l’incendio di Roma, la distruzione di Pompei ad opera del Vesuvio, la tremenda epidemia che devastò l’Italia.
Messo, suo malgrado, di fronte a questo scenario di guerra e disperazione, Tito rispose nel modo più bello e caritatevole possibile, sia pure meno funzionale per le sorti dell’Impero: esaurì il Tesoro per riparare i danni e, per assistere i malati, si contagiò egli stesso, perdendo la vita a soli quarantadue anni.
Domiziano a questo punto pensò bene, quando Tito si ammalò, di affrettarne la morte coprendone il corpo di neve.
Quando si dice “l’amore fraterno”!
Ed eccoci giunti (96-192 d.C.) all’età dei cc.dd. imperatori adottivi.
Nerva, “omaccione alto e grosso”, a cui bastarono solo due anni per porre riparo ai torti del suo predecessore; Traiano che passò alla storia come uomo colto solo perché era solito portarsi, sul carro di generale, Dione Crisostomo, celebre retore del tempo, che si prodigava a parlargli ininterrottamente di filosofia. Alla domanda su cosa avesse mai capito delle spiegazioni di Dione, Traiano candidamente confessò che, in realtà, non aveva mai inteso una sola parola delle tante pronunciate dal retore ma che vi si lasciava semplicemente cullare dal loro “suono d’argento”, pensando a tutt’altro.
E poi via via, lungo questo itinerario fantastico di grandi imprese e sfiziosi aneddoti, Indro Montanelli ci racconta di Adriano con la sua bella barba bionda, in realtà fatta crescere unicamente per nascondere certe sgradevoli chiazze bluastre che l’imperatore aveva sulle gote; di Antonino Pio, uomo senza nemici eccezion fatta per il nemico che si annidava tra le pareti domestiche: sua moglie Faustina, bella e a dir poco vivace; di Marc’Aurelio, infermiere ante litteram, che non abbandonava nemmeno per un secondo le corsie degli ospedali.
Ora, la narrazione va avanti ancora per molto, dai Severi fino a Costantino e oltre, per poi impaludarsi negli ultimi, insignificanti imperatori di Roma, sempre più estranei alla grandezza dell’Urbe.
Nelle fruttuose scorribande all’interno di questo, come di tutti gli alti volumi della Storia d’Italia, Indro Montanelli riesce a puntellare la necessaria aridità delle vicende storiche con la curiosità, il “fattariello”, che ci rendono più accattivante, più immediatamente fruibile, una narrazione “alta” per il solo fatto di essersi prestata alla penna del grande scrittore-giornalista. E ciò anche quando, per una diversa visione storico-politica, i suoi giudizi non sono pienamente condivisibili con i nostri.
Forse uno dei guai dell’Italia è proprio questo, di avere per capitale una città sproporzionata per nome e per storia, alla modestia di un Popolo che quando grida “forza Roma” allude solo ad una squadra di calcio.
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