Il Signor Diavolo: Pupi Avati e il ritorno alle origini
Con Il Signor Diavolo, Pupi Avati ritorna, dopo più di dieci anni, all’orrore “gotico”. E lo fa con una storia macabra e “oscurantista”
Se c’è una cosa che Pupi Avati sa fare bene, è quella di raccontare e di ideare dei veri e propri affreschi “rurali”. Fin dagli inizi della sua carriera, il regista ha sempre attinto a piene mani dalle sue mire provinciali, che l’hanno spinto a connotare ottimi racconti in contesti molto “ridotti”. Uno su tutti, la sua amata Pianura Padana, teatro di storie inquietanti e dai risvolti inevitabilmente orrorifici. Tra questi, naturalmente, c’è il suo Il Signor Diavolo.
Il nuovo di Pupi Avati, scritto come sempre in collaborazione con i suoi beneamati fratelli Antonio e Tommaso, stupisce. Impressiona perché racconta la forza di un’Italia che vuole superare, ancora una volta, gli stereotipi che connotano il suo cinema alla commedia e alle storie “nere” (basti pensare a Gomorra & Friends). Non c’è spazio solamente per la corruzione, ma anche per l’orrore più puro, per le storie di paura un tempo protagoniste dei racconti narrati la sera accanto al fuoco nelle case di campagna.
Ed è proprio la campagna il teatro perfetto del suo Il Signor Diavolo. Una campagna che dimostra ancora la sua arretratezza culturale, il suo essere attaccata a tradizioni e superstizioni di ogni tipo. Tali perfino da considerare anche la persona o l’animale più innocente di questa Terra come “indiavolato” e “demonizzato”. Un film fortemente radicato nella cultura anni ’50, in un’Italia immersa tra la paura e la sacralità dettata anche dal Governo della Democrazia Cristiana.
E allora, caliamoci per bene a fondo in questo turbinio di eventi sconvolgenti, in questa fiaba macabra che ha anche i suoi risvolti e la sua critica politica ben assestati.
Tra le valli di Comacchio
Il Signor Diavolo si radica in tutto quel malessere che l’Italia ha saputo donare nel corso degli anni del “miracolo economico”. A scatenare il turbinio degli eventi è un evento di cronaca nerissima e macabra. Siamo nell’Autunno del 1952 in Veneto, più precisamente nella provincia veneziana. Qui è in corso l’istruttoria di un processo per l’omicidio di un adolescente, Emilio Vestri Musi, considerato frutto del demonio e proprio per questo ucciso da un coetaneo.
Furio Momentè (Gabriele Lo Giudice), ispettore del Ministero, parte per Venezia con la sola mission di tenere lontano dai guai ogni rappresentante del clero, ma l’inchiesta gli prende la mano. Qui il flashback ci racconta di Carlo Mongiorgi (un quantomai inquietante Filippo Franchini). L’omicida è un quattordicenne che ha per amico Paolino Osti, morto di malattia due anni prima del delitto. La loro vita è serena fino all’arrivo di Emilio (Lorenzo Salvatori), un essere deforme figlio unico di una possidente terriera (Chiara Caselli) che si dice abbia sbranato a morsi la sorellina.
A questo punto Carlo, scambiandolo per il demonio, avrebbe ucciso Emilio, reo di essere avvezzo al peccato. Ma l’ispettore Momentè è convinto che ci sia sotto più di quanto Carlo dice. Tra segreti, superstizioni e mostruosità, la verità pian piano verrà a galla e lascerà tutti sconvolti.
Il ritorno alle origini
Sarebbe proprio il caso di dire: bentornato, Pupi. Il Signor Diavolo si istilla benissimo a metà tra il noir e l’horror, raggiungendo quella dimensione di fiaba macabra che a più riprese l’Italia ha saputo sfornare (soprattutto negli anni ’70). Avati recupera tutto l’antico immaginario del mondo contadino e della provincia padana (inutile dire quanto si sia ispirato al suo capolavoro, La Casa Dalle Finestre Che Ridono). Il regista disegna un mondo piccolo fatto di superstizione, sacralità, rituali e campanilismo.
A farla da padrone è proprio la religiosità, perpetuata in tutti i personaggi, da Momentè al Sagrestano, fino allo stesso Carlo. Una religiosità che rende ciechi i protagonisti, paurosi e timorosi del diverso senza una precisa ragione. Una religiosità che restituisce allo spettatore l’inquietudine giusta, resa ancora più accentuata da una fotografia fredda e cupa e da una regia a ritmo lento, piena di piano sequenze, appropriata per gli eventi.
L’affresco globale disegnato dal regista restituisce a Il Signor Diavolo una perenne inquietudine, accentuata anche da alcuni tocchi gore (l’uccisione del maiale) che accrescono il valore della pellicola. Sorprendono le prestazioni del piccolo Franchini, raggelante in ogni sequenza e della “dark lady” Chiara Caselli, disturbante e misurata al punto giusto.
Il regista prende e dilata perfettamente i tempi, prendendosi tutto lo spazio per far immergere a pieno lo spettatore nelle atmosfere. Pochi dialoghi, ma sempre giusti. A parlare, perlopiù, è ciò che lo spettatore non vede, la tensione che si alza man mano che cresce il racconto. Avati gioca per sottrazione, e ci riesce con una maestosità convincente, inquietando e (talvolta) disturbando.
Più tempo
Il Signor Diavolo, però, non è esente da difetti. Uno tra questi, probabilmente il più palese, è la gestione del tempo adottata soprattutto nel finale. Avati si prende il giusto tempo per presentare perfettamente lo scenario e far immergere lo spettatore nella dimensione rurale “malata”. Il problema è che poi tronca tutto troppo bruscamente, regalando alla vicenda una risoluzione troppo frettolosa e un finale che lascia l’amaro in bocca.
Sicuramente il regista ha voluto giocare per sottrazione, complice anche il budget non grandissimo a sua disposizione. Risolvendo la soluzione così troppo in fretta, però, destabilizza lo spettatore che proprio dopo un’ora, un’ora e dieci incomincia a familiarizzare con l’ambiente filmico. Stiamo parlando di una pecca che, purtroppo, continua a persistere nel cinema di genere italiano odierno. Un vero peccato.
Nonostante tutto, però, l’esperimento riesce mediamente bene. La strada per il futuro è tracciata, Avati ne è pienamente consapevole e anche “noi” pubblico di “aficionados” speriamo che il Diavolo si “moltiplichi”, regalando altri esemplari del genere.
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