In The Box, esordio di Giacomo Lesina
Film italiano in concorso al Courmayeur Noir In Festival, In The Box di Giacomo Lesina, thriller che rappresenta l’imprevedibilità della vita
[ads2] Se analizziamo il film in relazione al genere scelto, il thriller, la vicenda narrativa non convince arrivando al finale. In The Box è un film che nasce dal dettaglio degli occhi terrorizzati della protagonista (Antonia Liskova), che si ritrova intrappolata in una macchina e in un garage sconosciuto dove si diffonde gas fatale, e finisce con il suo corpo semi disteso paralizzato dalla morte. Il passaggio dalla vita alla morte è il tema del film. La giovane donna appare subito capace di ribellarsi alla sua condizione e sperimenta in poco tempo diversi modi per liberarsi da quest’incubo. Esce dalla macchina, ma il garage è chiuso, le sue urla non arrivano da nessuna parte. La disperazione e la paura di non uscire più da quel luogo misterioso sono ben definite sul volto dell’attrice, a tratti esagerata ed esasperante. Siamo subito dentro il terrore di Elena, troppo amplificato fin dal primo minuto. I minuti sono importanti nel film, perché sono 78 e sono quelli reali in cui si svolge la storia.
Capiamo man mano cosa è accaduto e cosa potrà accadere attraverso le telefonate che Elena scambia con alcuni personaggi che entrano nel suo precario destino. L’uomo che ha progettato questa trappola, un commissario, e sua sorella Rita a cui è affidata momentaneamente sua figlia. La storia di Elena si ricostruisce proprio attraverso le telefonate. È tutto così fatiscente e irreale, tranne la totale coincidenza tra tempo della storia e tempo della narrazione, che ci confonde e ci incuriosisce fino in fondo. Elena viene svelata a tappe, un po’ dall’uomo che l’ha portata dentro il garage e un po’ dal commissario, infine si auto-definisce la persona che è stata, perché il suo passato è il suo vero tormento, su cui l’uomo che la osserva gioca, invitandola a trovare la soluzione partendo dalla macchina presente nel garage, dove ha lasciato diversi indizi che dovrebbero portarla alla salvezza.
Una mente con cui non riusciamo a prendere confidenza, che rimane gelida e incomprensibile anche dopo la fine del film. Conta la psicologia della vittima, il suo corpo affannato, disperato e pronto a qualsiasi sforzo pur di trovare la via d’uscita. Un attaccamento alla vita che viene messo continuamente in discussione attraverso una prova molto difficile da superare: scegliere di salvare la propria vita eliminando quella di un bambino malato terminale ritrovato nel bagagliaio della macchina. Elena è disperata. Il commissario che le continua a promettere di liberarla dal suo incubo, in realtà si sofferma sul suo passato e cerca di ricostruire le sue colpe portandola verso la confessione, denunciando il lavoro losco di suo marito.
Una telecamera diventa la sua unica forma di testimonianza, quando comincia a realizzare che non tornerà più alla vita normale. Dichiara così a sua figlia tutto il suo amore, definendola l’unica gioia di una vita che, da quello che cominciamo a capire dalla telefonate, è stata poco corretta e sana. Elena infatti ha provato a cambiare vita, stava per scappare dalla sua casa con sua figlia, prima di essere rapita misteriosamente: qualcosa non è andato come voleva.
La paura che interpreta Giacomo Lesina è l’imprevedibilità della nostra vita, l’incapacità di ribellarsi a qualcuno che, improvvisamente, riuscirà a manipolarci e toglierci la libertà. Forse il terrore per Lesina si esprime nella privazione della libertà senza una logica, e in questo thriller la libertà viene più volte invocata. Evocativa la scelta di inserire nel dramma di Elena un uccello in gabbia che scandisce la sua posizione rispetto alla libertà: il suo cinguettio stabilisce la possibilità ancora aperta di liberarsi, ma muore, anticipando anche la morte della protagonista.
Il finale ci richiede di fare uno sforzo in più, perché se restiamo ancorati alla struttura aristotelica di In The Box, non capiamo cosa vuole comunicarci il regista quando quella saracinesca si apre, casualmente per mano del marito di Elena, da cui stavo scappando. Ed è come se il virtuale assassino di Elena avesse voluto negargli una vita nuova e riportarla verso la sua inesorabile fine. Il bambino che si gioca la vita insieme alla donna scopriamo essere il figlio dell’uomo che ha ideato questo meccanismo crudele. Uccide il padre, perché non vuole più essere intrappolato in questa gabbia claustrofobica. Esce dal garage e davanti a lui compare un muro bianco con scritto “suicidio“, e guarda verso lo spettatore. Cosa voglia dire Lesina con questo finale rimane poco chiaro, ma forse se ripensiamo alla condizione della donna, capiamo che si trova in una trappola esistenziale che la porta a pentirsi del suo passato e ad accettare una fine che non ha potuto scegliere liberamente. Il suicidio è negazione della libertà, dunque.
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