14 Luglio 2017 - 21:54

Ingmar Bergman, il regista dietro la maschera

Ingmar Bergman, il regista dietro la maschera

Ingmar Bergman, con opere profonde ed acute, ha saputo affermarsi come uno dei massimi interpreti cinematografici del tormentato animo dell’uomo contemporaneo, mostrandoci ciò che si cela al di là delle apparenze. Oggi avrebbe compiuto 99 anni #AccadeOggi

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Le prime riprese di Ernst Ingmar Bergman (Uppsala, il 14 luglio 1918 – Fårö, 30 luglio 2007) risalgono all’estate del 1945, quando prende forma il suo primo film, Crisi (1946), tratto da una pièce di Leck Fisher.

Ingmar Bergman, il regista dietro la maschera

Ma è nel 1949 che realizza Prigione, il film antesignano della sua ininterrotta poetica cinematografica, che segna il distacco definitivo dal Realismo.

La formazione del cinema bergmaniano avviene però solo a partire dal suo capolavoro, Il settimo sigillo (1956), che è esteticamente un affresco medievale, mentre concettualmente affronta riflessioni prettamente contemporaee su vita e morte, sul rapporto fra uomo e Dio, sul senso della propria esistenza.

“Vorrei confessarmi ma non ne sono capace, perché il mio cuore è vuoto. Ed è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura. Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili. Vi scorgo immagini di incubo nate dai miei sogni e dalle mie fantasie”. (Antonius Block)

Ingmar Bergman, il regista dietro la maschera“Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?” (Antonius Block)

Ingmar Bergman, il regista dietro la mascheraIngmar Bergman qui indaga il problema del vuoto che si sostituisce alla perdita della fede, quanto la ricerca di una religiosità intima che si impone su quella dogmatica e formalistica. Questi saranno temi presenti anche nelle sue opere successive: La fontana della vergine (1959), Come in uno specchio (1961) e Il silenzio (1963).

La filmografia del regista svedese da questo momento vede definirsi compiutamente uno stile cinematografico sempre più cupo ed angosciante. A partire da Persona (1966), Il Rito (1969), Passion (1970), i suoi film si sviluppano come progressivi trattati sull’idea della morte, sul disfacimento e l’ipocrisia della società, sulla solitudine dell’individuo, sulla sua concezione identitaria. Sostanzialmente il silenzio, il vuoto, la ricerca vi si insinuano come punti focali di un recondito teatro di marionette, debitore della drammaturgia ibseniana e della filosofia kierkegaardiana.

Ingmar Bergman, il regista dietro la mascheraPersona è probabilmente l’opera più sperimentale di Bergman che, appropriandosi di tecniche surrealiste ed espressioniste, indugia nei comportamenti e nella psicologia umana, con una virtuosa sapienza metacinematografica: così possiamo assistere all’etereo accartocciarsi della pellicola su se stessa, incenerita dalla fiamma.

Nel bianco e nero della pellicola, lo sfondo quasi scompare per lasciare il posto allo spazio neutro che incornicia i primi-piani, con cui il regista porta l’attenzione sull’immagine-affezione, intensificata dal disagio emotivo, dal senso di colpa, dall’angoscia.

Ingmar Bergman, il regista dietro la mascheraPersona,  il cui titolo deriva dalla locuzione latina Dramatis persona, usata per definire la maschera indossata dall’attore (e quindi il personaggio) nel teatro latino, è la maschera estetica del velamento e dello svelamento: così i volti-maschera si installano plasticamente a definire l’ambigua relazione che si instaura tra le due protagoniste, Alma (Bibi Andersson) ed Elisabeth (Liv Ullmann attrice ricorrente nei film del regista svedese).

Bergman passa repentinamente dal primo-piano intensivo a quello riflessivo, e nel passaggio i tratti somatici delle protagoniste sfuggono al contorno: così da non percepire più se si tratti di due volti distinti o di uno solo che si sdoppia.

In questa lettura, lo spettatore diventa il bambino, il figlio rifiutato, che ne tocca l’immagine, oltre uno schermo, cercando di cogliere la carezza del volto, ma riuscendo solo a sfiorare la freddezza e il distacco della maschera.

“Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia”.

Ingmar Bergman, il regista dietro la mascheraIn Sussurri e grida (1973) e Immagine allo specchio (1976) Ingmar Bergman conduce alle estreme conseguenze la propria filosofia estetica, per mezzo di una rigorosa disamina sulla società occidentale. Ciò lo porta ad affermare che la vita, così come l’abbiamo idealizzata e non per come è, è fondata su un patetismo celato da sovrastrutture, che non accettiamo di vedere.

Eliminata ogni parvenza di esistenza divina, il regista svedese ci mostra il male di vivere del singolo individuo in relazione agli altri, come un percorso interiore di crisi identitaria-esistenziale che annienta definitivamente l’essere in sé.

Proprio sull’occultamento dell’autenticità e dell’approssimarsi al verosimile sociale, quale precario equilibrio della nostre esistenze, Ingmar Bergman ha alimentato la sua aura di intenso ed incisivo regista, indagatore dell’animo umano.

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