20 Ottobre 2015 - 12:35

L’Italia deve avere “la propria tortura”

tortura

Dopo un ulteriore rinvio parlamentare, l’Italia deve introdurre nel codice penale il reato di tortura

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Un ritardo di 20 anni.

Nel 1984, l’ONU approva la Convenzione dei diritti umani contro la tortura, entrata poi in vigore il 26 giugno 1987. Nonostante la ratifica del testo, e i richiami internazionali, in Italia non esiste ancora una legislazione in materia. Una procrastinazione causata da interessi di parte, lentezze burocratiche, frammentazioni politiche: insomma le classiche storia all’italiana.

reato tortura

Il Codice penale italiano, dopo 20 anni, ancora contempla il reato di tortura

Negli ultimi anni, però, grazie anche ad una considerevole pressione da parte della società civile, dell’opinione pubblica, di organizzazioni impegnate in prima linea, come Amnesty International, ed organismi internazionali e comunitari, le istituzioni parlamentari, residui di quel processo democratico ancora in atto, sembrano procedere spedite sul disegno di legge in materia. Appunto, sembrano.

L’8 aprile 2015 approda alla Camera il testo, trasmesso poi in Commissione Giustizia del Senato, il 13 aprile, dove però è stato emendato; in rispetto degli iter legislativi, deve ritornare alla Camera, per una nuova approvazione.

Una legge che”Non s’ha da fare“. Rinvii, opposizioni, dissimulazioni, da (centro) sinistra a (centro) destra, i vari Renzi, Cicchitto, Gasparri, Giovanardi, sembrano voler minimizzare un fatto, anzi una prassi democraticamente consolidata, quella della coercizione da parte degli apparati di stato.

I casi Aldrovandi, Cucchi, ma soprattutto quella “macelleria messicana” quale fu il G8 di Genova del 2001, su cui è intervenuta anche la Corte di Strasburgo, condannando l’Italia per tortura, a seguito dell’irruzione della polizia nella scuola Armando Diaz, non hanno inclinato le resistenze lobbistiche ed ostruzionistiche di una certa classe dirigenziale che risiede nelle aule parlamentari, nelle prefetture, e nelle aziende di stato.

Quanto dovrà aspettare ancora la (neo)liberal democrazia italiana?

Un’altra Diaz? Un altro Stefano Cucchi?

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