25 Settembre 2018 - 08:00

Maniac: l’eterno splendore dei disturbi mentali netflixiani

Maniac

La nuova miniserie targata Netflix, Maniac, ci porta in un viaggio psicologico negli abissi della mente umana. Insieme ad Emma Stone e Jonah Hill

Cary Joji Fukunaga. A tutti coloro che sono appassionati di cinema, leggendo questo nome, saranno tornati in mente ricordi felici. Saranno tornati in mente due detective, nello specifico interpretati da Matthew McConaughey (eccezionale) e Woody Harrelson, alle prese con esistenzialismi e serial killer. Sarà tornata in mente una delle serie più belle degli ultimi dieci anni, facciamo anche venti: True Detective. Sarà tornata in mente una regia praticamente perfetta, fatta su misura per la serie.

Quattro anni dopo, Fukunaga è di nuovo qui, punta ad un nuovo progetto, punta a sbarcare su Netflix, per la definitiva consacrazione. Ma sceglie di tentare una strada completamente nuova, cambia scenario. Non più il noir di True Detective, bensì una commedia a metà tra la distopia e il fantascientifico. Così si può descrivere, in poche parole, la sua nuova creatura: Maniac.

Ma non è da solo. Si avvale della collaborazione di uno scrittore semi-sconosciuto, Patrick Somerville, noto ai più per aver scritto un paio di episodi della serie The Bridge, nel 2013 e quattro di The Leftovers. Ma compensa il tutto, scegliendo un cast incredibile. Justin Theroux, Gabriel Byrne, ma soprattutto i due protagonisti: Jonah Hill ed il premio Oscar Emma Stone.

La carne al fuoco è tanta, le premesse sono indubbiamente magistrali. Dunque, andiamo insieme a scoprire Maniac.

“Gli uomini non sono prigionieri dei loro destini, sono solo prigionieri delle loro menti.”

La scelta di questa celebre frase di Franklin Delano Roosevelt non è casuale. In essa si può trovare il riassunto perfetto di Maniac. La serie non è basata su un’idea originale, ma è un remake dell’omonima serie televisiva norvegese del 2014. Naturalmente, però, la mano è diversa ed il peso si sente tutto.

Da subito, lo spettatore è coinvolto in questo futuro nostalgico, in cui assiste a un’evoluzione-involuzione tecnologica. Un futuro popolato da fax, sfarfallanti insegne al neon e computer che coprono un’intera parete, all’inseguimento di un’estetica che possa in qualche modo distrarre dalla crescente ansia sociale instauratasi negli esseri umani.

Proprio nel mezzo di questa distopia visiva, avviene la fortuita collisione di Owen Milgrim (Jonah Hill) e Annie Landsberg (Emma Stone), anime in pena afflitte dal senso di colpa verso sé stessi o verso i propri affetti perduti. Owen è il giovane rampollo di una famiglia ricca e potente che lo tiene in pugno con la minaccia di farlo internare, a causa della sua schizofrenia, per costringerlo a rendere falsa testimonianza al processo del fratello, accusato di violenza sessuale.
Annie, invece, è una ragazza con sintomi del disturbo borderline che rivive ossessivamente il trauma della perdita della sorella.

I due si ritrovano assieme, reclutati per un avveniristico e rivoluzionario esperimento scientifico/farmaceutico, atto ad eliminare le sofferenze dei propri pazienti. Come? Tramite l’ingestione di tre diverse pillole. Lo strumento, però, si rivelerà inadeguato, ed i soggetti che se ne occupano idem, a cominciare dall’inventore James K. Mantleray (un grottesco e buffo Justin Theroux), schiacciato dal peso della madre psicologa (Sally Field) e da un’agorafobica collaboratrice, la dottoressa Fujima (una magnetica Sonoya Mizumo).

Le premesse per una grande serie ci sono tutte.

Una fuga psicologica interiore

Il titolo scelto per la recensione non è casuale. Rimanda ad un film molto attinente, scritto da Charlie KaufmanThe Eternal Sunshine Of The Spotless Mind. L’avventura vissuta da Owen ed Annie, in Maniac, è molto simile a quella di Joel e Clementine. Non è un’avventura vissuta all’esterno, come i più potrebbero pensare. La complessità delle due “anime in pena” viene fuori quasi subito. Entrambi sono afflitti dal senso di colpa verso sé stessi o verso i propri affetti perduti (le interpretazioni magistrali di Jonah Hill ed Emma Stone ce ne danno atto).

Sono veri e propri lupi solitari, chiusi in sé stessi e nelle loro angoscianti paure e nei loro dolori più insiti, refrattari a qualsiasi tipo di emozione umana. Come chi, nemmeno a metà della sua vita, può dire di averne viste di tutti i colori. Sono ormai disorientati, in un mondo caotico e privo di morale e senso. Ma nelle loro menti non c’è rassegnazione. C’è, anzi, la voglia di risolvere tutti i casini delle proprie vite, di regalare pace e splendore alle proprie menti, e questo proprio attraverso la terapia di GRTA. Il computer si occupa di pilotare le esperienze oniriche attraverso cui i volontari della sperimentazione affronteranno e combatteranno i loro traumi.

Qui sta un altro messaggio della serie: l’eterna lotta contro un male difficile da sconfiggere, che questa volta è la solitudine. I due la affrontano nel modo più semplice possibile, ovvero tramite il contatto tra le due anime. Contatto che, a dispetto degli sforzi di Fujima e Mantleray, diviene quasi indispensabile, pur di non restare soli e indifesi in un mondo che non guarda in faccia a nessuno. Owen non può fare a meno di Annie e viceversa.

Un messaggio che proviene da un futuro distopico, ma che può, e anzi deve, essere usato da tutti noi come un monito da applicare alla nostra vita. Insieme si possono superare le peggiori angosce.

Niente filosofia

Chi pensa che tutto ciò avvenga tramite discorsi chilometrici, tramite pensieri infiniti sul futuro che verrà, tramite derive narrative contorte rimarrà deluso. Maniac indaga il mistero della coscienza umana robotizzata o, ancor meglio, digitalizzata in modo molto normalizzato.

Ciò che, più che altro, viene agli occhi, è la feroce critica alla società odierna. Una società delimitata da falle strutturali immense, in cui si è perso ogni valore e in cui si pensa che ogni cosa possa essere risolta tramite una cura o con la tecnologia. Nulla di più sbagliato. Il messaggio che Fukunaga e Somerville ci vogliono dare è che, nonostante tutta la freddezza che le novità possono comportare, rimane un unico percorso per affrontare ogni ostacolo: quello dei sentimenti.

Una mezza delusione per chi si aspettava trattati e monologhi in stile Blade Runner sulla deriva glaciale di un mondo sempre più sprezzante (Rustin Cohle ne era l’esempio perfetto), una mezza gioia per chi voleva uno show fresco, più tangibile per tutti gli spettatori. A seconda dei gusti.

Il messaggio è che, anche da un futuro distopico, degradato, senza speranza, può nascere qualcosa. Come diceva Faber, “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori“.

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