Paul Thomas Anderson: tanti auguri al “The Master” del cinema
Paul Thomas Anderson compie oggi i suoi primi 50 anni. E, nonostante la giovanissima età, è già uno dei registi più importanti di tutti i tempi
Si può essere definiti “enfant prodige”, “uno dei migliori registi di tutti i tempi” a soli 50 anni, con alle spalle solamente otto film ed una carriera di soli 24 anni? Ebbene, sì. Perché Paul Thomas Anderson non è un uomo qualunque. Quando ci si scontra con profili del genere, tanto precoci quanto intelligenti, si può solamente restare estasiati ed applaudire a tutta forza ad ogni singola creazione. Un regista con una visione di cinema totale allucinante, con un’intelligenza cinematografica tra le più prorompenti di sempre.
C’è chi lo accomuna a Stanley Kubrick per la sua capacità di cambiare genere ed affrontarli sempre con piglio leggendario, chi invece lo accosta a Martin Scorsese per alcuni stilemi vicini alla New Hollywood. Il vero mentore, però, di Paul Thomas Anderson, è un altro, e spesso è un nome che ad Hollywood ci si dimentica: Robert Altman. Come il mitico cineasta, infatti, almeno nella sua prima parte di carriera, Paul Thomas Anderson decostruisce il concetto di genere, concentrandosi in toto su topos precisi: sogni, fragilità, forze e debolezze non solo degli uomini, ma di un’intera nazione, quella americana.
La sua prima parte di carriera si è focalizzata proprio su questi. Dopo un esordio interessante, pulp, con Sydney, già in Boogie Nights si getta sulla strada maestra “altmaniana”. Critica e decostruzione del sistema hollywoodiano, accentuazione delle ipocrisie della società americana fanno capolino ad un ritratto spietato e nichilista della borghesia. Subito dopo vi è il primo punto di svolta “esistenziale” con Magnolia. Dalla matrice di Altman, Anderson mette in evidenza l’edonismo americano, punendolo in modo apocalittico e costruendo una visione corale, un affresco di una nazione senza più valori, impersonale e imperturbabile anche di fronte alla potenza divina. E così, ci si collega a Il Petroliere.
Il radicalismo
Paul Thomas Anderson, dopo la bellissima prova offerta in Punch-Drunk Love, che però non suscita le stesse emozioni di Magnolia, muta. O meglio, si adegua, cambia strada, sperimenta. Così, con Il Petroliere, il suo cinema si radicalizza. E qui sta la vittoria del regista. Laddove la sua fama diventa massima, ci si aspetterebbe che un regista puntasse a dare al pubblico ciò che vuole. E invece no, il regista opera l’azione opposta. E così, regala uno dei più bei film del nuovo millennio, se non il migliore.
There Will Be Blood, molto più esplicativo de Il Petroliere, titolo italiano, segna la netta scissione tra il Paul Thomas Anderson passato e il presente. Lo stile del regista si radicalizza, si emancipa da qualsiasi tipo di modello e diventa unico, personalissimo, riconoscibile a tutti. Nel film del 2007, il cineasta, tramite una storia apparentemente solo biografica, in realtà racconta vita, morte e miracoli di un continente ipocrita, che nasconde dietro la voglia di democrazia la sua vera facciata: quella del capitalismo, del superomismo, dell’individualismo, formata sul sangue sia dei “self-made man” (come lo stratosferico Daniel Day-Lewis) che dei loro sottoposti. Ma soprattutto, formata sulla disciplina del demonio: il potere. L’America secondo Nietzsche, direbbe qualcuno.
Ma non solo, perché mette in evidenza anche l’ipocrisia ecclesiastica, anch’essa piegata alle logiche del potere, dell’autodeterminazione e dell’opportunismo. In questo, magistrale è anche Paul Dano, che ingaggia un duello di mostruosa bravura e tiene testa ad uno degli interpreti più bravi di sempre. Insomma, si può tranquillamente considerare Il Petroliere come il Quarto Potere degli anni ’00.
Ma poi il regista continua la sua strada e si radicalizza ulteriormente. Tramite una biografia, in The Master indaga sulla sudditanza psicologica dell’uomo e sul proprio centralismo all’interno di una società meschina, infima. Un uomo che fa del controllo la propria forza, dimenticando quanto sia profondo il vuoto generato dall’assenza di una figura femminile, di un’affettività d’altro sesso. E così, il suo stile diventa ancora più personale, a maggior ragione se il film è uno dei pochi girati in 65mm. Una strada che lo porta ad essere unico.
Le ossessioni
Dopo un adattamento comunque egregio del romanzo Vizio Di Forma di Pynchon, dove Paul Thomas Anderson coniuga praticamente il suo nuovo stile radicale a quello vecchio “altmaniano”, per il regista è tempo di estremizzarsi ulteriormente. E allora, Il Filo Nascosto diventa un film ancora più anti-commerciale.
Il suo cinema così diventa un apologo di ossessioni, di uomini distorti, con i paraocchi, incapaci di avere una visione totale e intrappolati nella propria dimensione intima. La maturità estetica e scritturale del cineasta è pressoché totale. Le fonti sono tante (da Bergman a Hitchcock a Kubrick), ma paradossalmente ormai Paul Thomas Anderson assomiglia solo a sé stesso, diventa unico, capace di partire da un pretesto qualsiasi per parlare poi di tutt’altro.
La storia, partendo da una vicenda biografica, parla dell’amore, ma ce lo descrive come un rapporto di potere, malato, perverso, declinato nella tensione tra vittima e carnefice. E il bello è che i due protagonisti (straordinari Daniel Day-Lewis e Vicky Krieps) si scambiano continuamente i ruoli, legati da un “filo nascosto”, ovvero l’ossessione di prevalere l’uno sull’altra.
E così il cinema di Anderson diventa completo. Assume la solidità dei classici, eppure risulta libero da catene, fluido, senza alcuna ancora e unico. E allora, tanti auguri, Maestro. Brindiamo a nuove opere, o nuovi capolavori, che dir si voglia.
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