Rosso Istanbul, la recensione dell’ultima fatica di Ozpetek
Nel corso della settimana è uscito nelle sale cinematografiche italiane “Rosso Istanbul”, ultimo lavoro del regista Ferzan Ozpetek
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Ozpetek torna finalmente sul grande schermo e lo fa con un’opera estremamente intimista, tesa a raccontare un piccolo, grande mondo che da sempre gli appartiene.
Orhan Sahin torna ad Istanbul dopo venti lunghi anni di assenza al fine di aiutare il celebre regista Deniz Soysal a completare la stesura di un libro, in quanto suo editor.
Il ritorno a casa di Orhan si dimostra, però, essere un potente tuffo nel passato, che lo porterà a confrontarsi con una città che non sente più sua e ad affrontare i demoni che non smettono di tormentarlo, anche attraverso le persone della vita di Deniz, in particolar modo gli amici di infanzia, Neval e Yusuf.
Ozpetek propone, dunque, una storia ricca di sentimento e profondamente malinconica, probabilmente la più personale del regista e, in quanto tale, difficile da cogliere ed apprezzare per i più.
Il film non risulta inquadrabile in un genere preciso: nonostante sia un’opera drammatica, tenta di immettere diversi elementi del genere thriller, mentre altre volte gioca con situazioni quasi surreali, mixando sogno e realtà.
I personaggi
L’autore si divide difatti, in due personaggi distinti, Orhan e Deniz: lo “straniero in patria” che ritorna dopo anni di assenza e il regista tormentato che idealizza la propria vita tra le pagine di un romanzo.
Il libro di Deniz è un racconto liberamente ispirato alla sua vita, i personaggi sono i suoi cari e la narrazione è lo specchio dei suoi sentimenti.
Figure importanti, sia nel libro che nella vita di Deniz, sono la bella Neval ed il tormentato Yusuf, nei confronti dei quali egli prova sentimenti profondi e complicati.
Gli eventi porteranno Orhan a doversi confrontare con entrambi, specie con Neval.
Orhan ha un approccio insolito con i personaggi della vita di Deniz, in quanto li ha conosciuti prima come figure descritte nel libro.
In pratica lui già conosce tutti: la madre, le zie, gli amici, ma solo per come sono attraverso gli occhi di Deniz, mentre il confronto con le versioni “originali” sarà molto più incisivo di quanto lo sventurato editor possa immaginare.
Gli eventi porteranno Orhan ad occupare pesantemente la vita di Deniz, ad avvicinarsi ai suoi affetti e ad identificarsi con lui. I due uomini sono l’uno l’alter ego dell’altro, tanto che Orhan si sente come un fantasma che infesta la casa di Deniz, che disturba e inquieta gli inquilini, i quali lo accolgono a volte con cortesia a volte con diffidenza, talvolta è un gradito ospite e talvolta viene tollerato con fastidio.
La casa di Deniz è uno specchio della stessa Istanbul per Orhan, un luogo dove sembra sentirsi sempre di troppo, e, andando avanti con la visione del film, se ne scoprirà il motivo.
L’analisi strutturale della pellicola
Dal punto di vista “fabulistico”, dunque, “Rosso Istanbul” è una storia che si snoda sufficientemente bene su sé stessa.
La vicenda, nel classico stile ozpetekiano , segue tempi e modi ricercati, eppure, la sensazione che qualcosa manchi accompagna la pellicola nel corso di tutta la sua durata.
Manca, ad esempio, la tensione sociale e politica di questi anni, troppo prorompente per poter essere messa alla finestra, per limitarsi a fare da sfondo alla tempesta emotiva del mondo altoborghese.
Manca Istanbul, o meglio, ne percepiamo pochissima. Ci aspetteremo, mai come in quest’opera dichiaratamente intimista, un forte richiamo ad una scenografia solida. Ma tale aspettativa resta non soddisfatta.
Il tessuto metropolitano della metropoli turca ci resta misteriosamente celato. Ozpetek gira un film di interni nel quale non sembra esserci spazio per uno sguardo che possa andare sull’esterno.
E’una scelta particolare, che, tuttavia, non sembra pagare importanti dividendi alla luce di una forte necessità di una mescolanza tanto di personaggi quanto di paesaggi .
Rosso Istanbul è, nel complesso, una pellicola intrigante con alcuni “buchi” insoliti per un regista tanto attento ai dettagli.
Una storia intimamente rilevante che, proprio nel bel mezzo del suo exploit narrativo, non trova la forza di elevarsi a vette che consentano allo spettatore di ritrovarsi quale elemento interno di una tela da cui non si vorrebbe mai più venir fuori (come avviene in opere quali “Saturno contro” o “Magnifica presenza”).
Resta un senso generale di artisticamente incompiuto che sa di rimpianto, soprattutto in considerazione degli evidenti sforzi introspettivi compiuti dall’autore, che osa tanto, si mette in gioco fino in fondo e va “all in” senza timore alcuno di poter apparire esasperante.
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