The Boys 2: la politica americana vista attraverso il supereroismo
La seconda stagione di The Boys ci ha presentato uno show rivoluzionato in tutto e per tutto. Ma la qualità raggiunta è sempre altissima
C’erano una volta i supereroi. Sì, esatto, c’erano. Perché almeno da due anni a questa parte, il concetto stesso è stato rivoluzionato. E, a pensarci, è stato lo show originale Amazon Prime Video, The Boys. Giunto alla sua seconda stagione, la serie TV ha macinato successi su successi, incappando però in molte polemiche di fondo proprio per questo suo ultimo prodotto. Infatti, tantissimi utenti della piattaforma si sono lamentati per la scelta di rilasciare le puntate della seconda stagione in maniera settimanale.
Una scelta che, a tantissimi utenti abituati al binge-watching, non è andata giù. Ma questa scelta, alla fine, si è rivelata una vera e propria strada azzeccata da parte dei produttori. Infatti, lo show ha gestito molto meglio quest’annata. Kripke e i suoi collaboratori hanno creato una seconda stagione dai toni molto più riflessivi, spingendo sul bottone dell’introspezione e dello sviluppo dei personaggi. Proprio questo, probabilmente, è stato il fattore chiave vincente anche della seconda stagione, che rischiava di annoiare il pubblico restando sulla stessa irriverenza della prima. Si può considerare, quindi, questo nuovo capitolo come uno step di crescita sul lato psicologico e intimista della serie, che ha assunto il lato spudoratamente politico che il fumetto ha sempre avuto.
Di contro, però, l’azione non è rimasta sugli sfondi. Anzi, è rimasta sugli stessi binari della prima stagione, con la sua esplosione di violenza ultra-pop e puri momenti gore e grotteschi che rimarranno sicuramente impressi nella mente degli spettatori. Pronti a catapultarvi in questo nuovo viaggio nel mondo di The Boys?
I “ragazzi” in fuga
Chiunque abbia visto la prima stagione, ricorda come i Boys fossero in fuga, braccati dalla legge. Il primo aspetto interessante è come la serie non cerchi di riportare l’universo alla normalità, ma anzi cavalchi il caos. Ed infatti, la seconda stagione inizia con una rivelazione a dir poco sorprendente: Butcher (un mitico Karl Urban) è disperso, dopo la scoperta che sua moglie Rebecca (Shantel VanSanten) è ancora viva ed ha un figlio nato dallo stupro operato da Patriota (un iconico Anthony Starr).
I suoi compagni Hughie (Jack Quaid), Latte Materno (Laz Alonso), Frenchie (Tomer Kapon) e la Femmina sono allo sbando, nascosti nei sotterranei alla ricerca di prove del Composto V. Nel frattempo, dal lato dei Super, c’è un vuoto di potere creato dalla morte di Madelyn Stillwell (Elisabeth Shue), che dà a Patriota l’opportunità di emergere e crescere di livello. Ma a dargli filo da torcere sarà l’improvvisa apparizione di una nuova eroina, Stormfront (Aya Cash), che minaccia la sua leadership e nasconde più segreti di quanti si immaginano.
I Sette devono anche fare i conti con la morte di Translucent e l’allontanamento di Abisso (Chace Crawford), mentre Starlight (Erin Moriarty) comincia a fare il suo doppio gioco per smascherare le malefatte della Vought. Butcher riesce a trovare un accordo con la CIA: i Boys avranno la fedina penale pulita se riescono a catturare un misterioso terrorista dotato di superpoteri che è riuscito a entrare clandestinamente negli Stati Uniti. E così la doppia caccia ha inizio.
L’influenza del fumetto
Il primo dato che salta all’occhio guardando la seconda stagione di The Boys è sicuramente un cambio di rotta nel topic della serie. Dopo l’irriverenza della prima stagione, utile a lanciare i personaggi, la seconda serie preferisce intraprendere tempi più riflessivi per indagare su ciascuno dei nuovi personaggi e, al contempo, imbastire sottotrame intelligenti. La nuova stagione è sicuramente ancora più esplicita, invece, per quanto riguarda il vero tema principale del prodotto: la critica politica.
Se c’è un grande merito di The Boys è sicuramente questo: quello di raccontare le mille ipocrisie della società americana e di smascherarne i peggioramenti in termine populista. E ci dice una cosa: l’America è un Paese fondato sulla violenza, sull’apparenza, dove il più forte è colui che trionfa sugli altri. Kripke, Rogen e Goldberg sono stati abilissimi nell’incanalare la critica già presente nel fumetto di Ennis e attualizzarla ai giorni nostri. C’è spazio, quindi, per martirizzare l’ideale di superomismo americano e di identificarlo con la forza radicale ed eversiva che hanno ancora i concetti di estrema destra. Protezionismo, intolleranza, paura del diverso e individualismo sono lo spirito vero che si cela dietro i Super. E, ad avallare la tesi, concorre sicuramente il nuovo personaggio presentato: Stormfront.
Grazie alla memorabile Aya Cash, il suo personaggio sintetizza tutto ciò che caratterizza il populismo oggi: forza radicale ed eversiva e peso della comunicazione. Soprattutto, offre uno sguardo cinico su una realtà politica completamente assuefatta ai social e ai mezzi, preoccupandosi solamente di apparire e non di essere. E su come, soprattutto, questa realtà stia coinvolgendo anche le grandi industrie cinematografiche.
Altro punto a favore è sicuramente la condanna nei confronti di tutti i personaggi e della loro violenza. Non esistono personaggi puri, nel mondo di The Boys. Esiste solo chi tira l’acqua al proprio mulino. Mica poco.
Più introspezione
Altro punto a favore della seconda stagione di The Boys è la maggior capacità d’introspezione dei personaggi. C’è una maggiore volontà di pathos emotivo per tutti i personaggi principali, che effettuano importanti step di crescita. Soprattutto tutti i Super, da A-Train (un ottimo Jessie Usher) fino all’ecclesiastico Abisso (Chace Crawford), compiono un passo avanti e delineano meglio il loro carattere. Merito di uno script che permette più evoluzione dei personaggi, ma che non abbandona lo stampo ultra-pop e violento della prima stagione.
I momenti cruenti e grotteschi sono leggermente più contenuti, naturalmente, ma la sintesi tra questi due elementi crea anche più armonia nella trama. Addirittura, ne favorisce la sua scorrevolezza e, alla fine, permette agli sceneggiatori di chiudere in bellezza l’arco narrativo e di aprirne un altro in background, palesandolo negli ultimi episodi.
Insomma, se nella prima stagione c’era stata una prova “di forza” e di scaltrezza da parte dell’equipe, che puntava saggiamente sul fattore sorpresa, qui si consolida l’architrave su cui poggia l’intera serie, pur portando avanti la trama. Il che fa capire come la volontà degli sceneggiatori, più che puntare sulla “facciata”, è quella di portare avanti un discorso riflessivo e sensato. E, di questi tempi, non è per nulla scontato.
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