17 Marzo 2019 - 06:00

True Detective 3: un viaggio nei labirinti della memoria

True Detective 3

La tanto attesa terza stagione di True Detective è arrivata. Cambiano i protagonisti, ma la vicenda di True Detective 3 è affine alla prima stagione

C’è stato un tempo in cui True Detective era diventata una serie di culto. Questo successe dopo la prima (irraggiungibile) stagione, dove Matthew McConaughey e Woody Harrelson avevano dato vita ad un capolavoro seriale. C’è stato poi un altro tempo in cui la stessa serie ha vissuto un momento “di magra”. La seconda stagione, infatti, è stata definita all’unanimità come una sorta di incidente di percorso, troppo ampia la forbice con la prima stagione. Poi c’è stato un lungo silenzio.

E, d’un tratto, qualcosa è cambiato. La terza stagione è arrivata, ed ha portato con sé nuove vicende, nuovi protagonisti e tanta voglia di fare. Un cast d’eccezione capitanato dal premio Oscar Mahershala Ali (che, come al solito, non delude mai) con il suo mitico compagno Stephen Dorff. L’idea era quella di riproporre la celebre coppia Rust CohleMarty Hart, che ha portato la serie al successo planetario.

Ma, per l’ennesima volta, ricordando sempre che True Detective è una serie antologica, cambiano gli scenari. Questa volta si va quasi nel profondo Sud, in quell’Arkansas già teatro di serie di culto di “netflixiana” memoria. Anzi, nemmeno a farlo apposta, la vicenda è ambientata proprio lì, negli Ozarks. Non c’è più spazio per la narrazione noir della seconda stagione, ma si ritorna alle atmosfere rarefatte, catartiche, immersive e “gialle” della prima stagione.

Ma andiamo con ordine.

Un caso di sparizione

La terza stagione, dunque, segue mestamente la linea della prima. In True Detective 3, la vicenda si incentra su un episodio di cronaca nera avvenuto il 7 Novembre 1980. Nella profonda provincia dell’Arkansas, due bambini, fratello e sorella, usciti in bicicletta, tali Will e Julie Purcell, misteriosamente scompaiono dopo essere usciti a fare un giro in bicicletta.

Ad investigare, viene chiamato il detective della Polizia di Stato Wayne Hays (un gigantesco Mahershala Ali). Quest’ultimo è un giovane detective dell’Arkansas ancora traumatizzato dagli orrori del Vietnam. A lui, nelle indagini, viene affiancato il detective di Polizia Roland West (un sontuoso e quanto mai ingombrante Stephen Dorff), che aiuterà il detective Hays.

Ma la vera novità che True Detective 3 porta è un’altra. Infatti, i fatti sono narrati dallo stesso Hays in versione “old“, tramite due finestre temporali. La prima nel 1990, quando viene interrogato sulla vicenda dai suoi ex colleghi causa un’inattesa novità sul caso. La seconda nel 2015, tempo attuale della vicenda, quando l’anziano detective, malato di demenza senile, viene intervistato per un programma televisivo di cronaca.

Dunque, tramite questi “labirinti della memoria” si ha una visione sempre più chiara della faccenda.

Il ritorno alle origini

Chiunque abbia già visto True Detective 3 si è naturalmente reso conto delle disarmanti analogie con la prima stagione. In alcuni momenti, le somiglianze sono fin troppo evidenti, ma la ricetta adottata da Pizzolatto si dimostra praticamente perfetta per un ritorno in grande stile della serie.

La trama si basa su un mistero avvincente, gli stessi spettatori hanno il compito di costruire il puzzle intricato della vicenda Purcell tessera dopo tessera, puntata dopo puntata. Le ambientazioni ritornano ad essere quelle rurali della prima serie, ma c’è anche un punto in più a favore della terza. Infatti, la sperimentazione della vicenda non più su due, ma su ben tre piani temporali porta la vicenda ad un grado più alto.

Certo, qualcuno potrebbe obiettare e dire che in questo modo True Detective 3 è alquanto confusionaria. Invece, Pizzolatto (a cui si affianca Graham Gordy in un episodio) riesce a ritrovare la verve persa nella seconda stagione e a regalare puri momenti di tensione e di fascinazione del mistero. A questo, inoltre, aggiunge un’intensa componente intima che nella prima stagione non troviamo.

Il ritorno della magnifica regia

Se nella prima stagione Fukunaga aveva stupito tutti, qui la faccenda è molto più intricata. Tanti i registi a cui sono affidate le puntate, ma la riuscita è praticamente incredibile. Oltre allo stesso Pizzolatto che sceglie coraggiosamente di esordire ufficialmente alla regia (con il fastoso e meraviglioso quarto episodio), sale in cattedra un professionista del mestiere: Jeremy Saulnier.

Il grande regista thriller/horror, un talento in erba degli ultimi anni (tre perle su tutte: Blue Ruin, Green Room e Hold The Dark), offre una visuale magnifica e perfetta in True Detective 3. Detta e scandisce i ritmi in maniera catartica, come un orologio, sfrutta l’ambiente a 360° con facilità disarmante, riuscendo a ricreare le atmosfere magiche di Fukunaga. In più, aggiunge continui picchi di suspense alla storia, come se non bastasse.

Altro grande merito lo si deve a Mahershala Ali e Stephen Dorff. Il primo dimostra il perché del secondo Oscar ricevuto in 3 anni con una prestazione meravigliosa, ma è il secondo a sorprendere. Dorff caccia fuori tutto l’estro di cui possiede e regala una prova ben “sopra le righe“, compensando ottimamente la personalità “posata” del partner. Certo, McConaughey e Harrelson non si toccano. Ma la prova offerta è davvero di qualità, e anche la regia ne risente.

Si poteva osare di più?

Se si può trovare un difetto a True Detective 3, è tutto nella “ripetitività“. La storia, i personaggi, le ambientazioni si ispirano forse troppo alla prima incomparabile stagione. In questo modo, la terza stagione rischia di essere una buona copia della prima. Forse, gli sceneggiatori avrebbero potuto osare un po’ di più e staccarsi dall’etichetta di “giallo classico”.

Anche negli stessi piani temporali, l’impressione è che si voglia strafare. Tante volte l’azione e le vicende che si intrecciano diventano faticose da seguire, soprattutto nel momento in cui i piani temporali in gioco diventano tre. Uno snellimento della vicenda sicuramente avrebbe giovato a True Detective 3.

Questo, però, vuol dire voler cercare proprio il pelo nell’uovo, il difetto minuscolo in una serie che è tornata sui livelli già apprezzati nella prima stagione e (ahimé) smarriti nella seconda.