Preacher 4: lo scontro finale più bizzarro e dissacrante
Con la quarta stagione, Preacher raggiunge il definitivo “canto del cigno”. Ma non senza le caratteristiche che l’hanno sempre caratterizzata
C’era una volta Garth Ennis, un meraviglioso fumettista che decise bellamente di rivoluzionare la nona arte negli anni ’90. Come? Semplice: a colpi di anti-politica, linguaggio e situazioni grottesche, senza colpo ferire, che diventano di una bellezza ultraviolenta e (fortemente) iconoclasta. Inutile dire che la tradizione delle serie TV ne ha sfruttato pienamente il bagaglio. Se già il The Punisher di Netflix si aggirava molto di più sulle sue “mire”, negli ultimi tempi (ovvero lo scorso mese) ci ha pensato Amazon con The Boys a rimpolpare le fila. E ora, ad Agosto, è arrivata lei: la stagione conclusiva di Preacher.
Inutile dire come quest’ultimo sia il fumetto più famoso (nonché quello che lo ha fatto conoscere al grande pubblico) di Garth Ennis. Nonché, probabilmente, il più dissacrante. Infatti, come soggetto principale ha proprio un predicatore di una piccola città del Texas. Preacher si prende lo spazio per indagare la cultura americana più conservatrice, ovvero quella inneggiante al “God” sempre e comunque, ne ribalta le convinzioni e ne accentua i tratti più imbarazzanti. Un fumetto profondamente rinnovatore, qualcosa di mai visto prima d’ora.
Ed ecco che Seth Rogen ed Evan Goldberg (affezionatissimi ad Ennis, tanto da aver creato anche la serie relativa a The Boys) son riusciti a portare su schermo anche quest’altra mitica serie fumettistica che ha praticamente sconvolto tutti, negli anni ’90. La serie si presenta come un vero e proprio western mescolato ad un road movie tradizionale. Ma andiamo con ordine e immergiamoci a pieno nell’atmosfera della serie conclusiva di quest’ottimo show.
Trovare Dio
La storia di Preacher è una tra le più assurde e incredibili mai scritte prima. Come al solito, il linguaggio fumettistico si permette di inventare cose davvero stranissime. La storia narra di un giovane pastore protestante di nome Jesse Custer (un ottimo Dominic Cooper), responsabile della locale comunità religiosa in una squallida e dimenticata cittadina del Texas.
Quest’ultimo è in preda ad una crisi mistica, ma nel suo corpo si è installata un’entità in fuga dal Paradiso che gli dona immensi poteri. A questo punto lo stesso Jesse si mette in viaggio alla ricerca di Dio (interpretato nella serie da Mark Harelik), per capire cosa fare della sua vita e dei suoi poteri. In questo “road trip” i suoi compagni saranno la sua ex fidanzata Tulip O’Hare (interpretata da Ruth Negga), abilissima pistolera e il suo amico Cassidy (un sempre in forma Joe Gilgun), vampiro irlandese pazzo e vizioso.
Nella quarta stagione, naturalmente, giunti alla fine, il “Preacher” sarà impegnato nell’atto conclusivo del suo viaggio: lo scontro finale con la divinità suprema. Riuscirà a sconfiggerla definitivamente?
Un western alla Tarantino
Inutile girarci intorno: il modello preso d’ispirazione è ancora una volta lui, Quentin Tarantino. Preacher è una serie fortemente iconoclasta e parodistica, che si permette di scimmiottare e di criticare ferocemente e in maniera grottesca anche un impianto così “serio” come quello religioso. È sfacciata, irriverente, blasfema e dissacrante al punto giusto (come del resto il suo creatore), rendendola un prodotto non adatto a tutti, ma incredibilmente interessante.
Preacher è un autentico pugno in faccia. Cinica come non mai nella sua illustrazione del mondo e dei rapporti interpersonali, violentissima, splatter e gore tanto da rasentare anche l’orrore. Una vera e propria serie da censura, ma indispensabile per i tempi che corrono. I personaggi sono sempre sopra le righe (ah, Tarantino…) e si muovono in un mondo pericoloso, dove i duelli sono all’ordine del giorno, degni dei migliori film di Corbucci.
Non amare, però, Jesse, Tulip e Cassidy è impossibile. Oltre al bipolare Dominic Cooper e alla temeraria Ruth Negga, chi riesce a far cambiare di passo la serie è il folle Joseph Gilgun. Quest’ultimo è impegnato sempre in dialoghi surreali, al limite dell’inverosimile, che divertono e trascinano gli spettatori incantandoli con gli occhi.
La regia è compatta, con molti campi larghi di ampio respiro. Fotografia minimal, ma perfetta per l’ambientazione rarefatta e desertica della serie. I numeri ci sono tutti.
Il difficile avvio
Uno dei difetti che si è sempre riscontrato in Preacher (e che continua ad essere perpetrato) è la sua alternanza continua tra stasi e azione. Troppi sono i momenti morti della serie. Soprattutto nelle prime due puntate, la narrazione appare come bloccata, salvo sbloccarsi poi improvvisamente e poi tornare ad impantanarsi.
Una serie quasi “lynchiana”, verrebbe da dire. Il che rende non molto facile la visione, con tantissimi momenti in cui lo spettatore è quasi tentato di abbandonare definitivamente la storia. Preacher si trascina questo difetto ormai da ben 4 stagioni, ma non sembra averne fatto tesoro. In un momento in cui c’è bisogno di azione dinamica, il fumetto sarebbe potuto essere stato adattato in maniera molto più immediata e impressiva.
Rogen e Goldberg ci sono riusciti perfettamente con The Boys. Molto di meno, invece, con l’altra serie “ennisiana”, che viene relegata così a mero prodotto d’elite. E forse, anche a questo motivo è dovuta la sua fine definitiva con la quarta stagione.
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