Douglas Gordon – 24 Hour Psycho verso l’installazione dell’immagine
Douglas Gordon estrapola il tempo filmico di Psycho e purifica l’immagine, la scolpisce nel tempo dell’installazione, portando il cinema in un luogo esposto
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Douglas Gordon (Glasgow, 20 settembre 1966), visual artist scozzese premiato a soli trent’anni con il prestigioso Turner Prize (1996), è autore di opere piuttosto note, come 24 Hour Psycho (1993), uno dei film sperimentali più lunghi della storia, e Zidane: A 21st Century Portrait (2006), un documentario incentrato sullo stile di gioco dell’ex calciatore francese, co-diretto con Philippe Parréno. Gran parte del lavoro dell’artista si incentra sulle videoinstallazioni, che vanno dai film di Martin Scorsese come Taxi Driver, passando per L’esorcista e La finestra sul cortile, fino a documentari anonimi. La sua opera si ricollega a precedenti specifici, tra cui sembra essere preminente il ruolo di Andy Warhol con la sua telecamera fissa, le inquadrature prolungate e gli schermi divisi.
Laddove Roland Barthes parlava di punctum in ambito fotografico, Douglas Gordon con le sue opere innesca una ricerca intorno all’inconscio del film, riproducendo un tempo-immagine di intensità psicologica e di densità emotiva; ma la sua è un’indagine che parte dalla destrutturazione del film, per farne emergere le dicotomie formali, tematiche e psicologiche. E proprio il suo ricorso alla dicotomia formale ha un diretto precedente in Peter Kubelka, precursore dei film flicker, in cui alternava in maniera rapida fotogrammi chiari a quelli opachi.
In tal senso, gli stessi pannelli di proiezione hanno un ruolo strategico: infatti spesso vengono usati per ricreare esteticamente una soggettività divisa, come nell’autoritratto Mostro (1996-1997), in cui come in altre opere, vi è un’indagine nella dimensione religiosa, nella visione manichea del bene e del male, giustificata dai precetti calvinisti con cui Douglas Gordon è cresciuto.
Il medium è centrale nella sua elaborazione artistica, fondamentalmente perché Douglas Gordon si serve di dispositivi atti a dilatare il tempo della narrazione di pellicole, di cui si appropria modificandone il significato. Questa nuova prospettiva stravolge l’immaginario collettivo dello spettatore, fornendogli una rilettura inedita e celata.
La sua opera cinematografico-artistica indaga formalmente e concettualmente due costruzioni del tempo narrativo: l’estensione temporale del film in rapporto al tempo stesso della narrazione, e quella del film per confrontarsi col tempo reale, come in “Confession of a Justified Sinner” e“5 Year Drive-in”. L’artista scozzese si concentra quindi sul tempo del cinema, come il passaggio più prossimo tra l’arte e la vita: ciò riconduce ad una riflessione ontologica di genere sull’arte contemporanea.
Douglas Gordon rallenta il tempo dell’azione in prospettiva di un fotogramma che diventa monumento, quasi potesse scolpire il tempo stesso. Collocato nello spazio espositivo, il “film” acquista una presenza fisica, permettendo un’interazione totale, trasportandoci potenzialmente nel plastico della proiezione, concepito come strato scultoreo polisensoriale. L’immagine stessa cambia agli occhi dell’osservatore, che muovendosi la vedrà allungarsi, deturparsi. In questo modo la finzione del film è deformata dal tempo reale, che ne svela l’essenza illusoria.
Se il cinema è tempo, immagine-tempo, che fluttua dal proiettare allo schermo cinematografico per diventare narrazione, l’installazione è il discorso sull’arte, trasversale e “minimalista”, che pone sul piedistallo la composizione, le tecniche e le immagini che, estrapolate dal “luogo” originale, si completano in altri contesti, concettualizzandosi in una nuova performance, nella nuova funzione artistica e spettatoriale.
Nel caso di 24 Hour Psycho, Douglas Gordon distende il film alla sua durata reale, il tempo del racconto che si differenzia dal tempo della narrazione, esponendo nel museo Psycho che procede per 24 ore effettive, mostrando le azioni e lo sviluppo delle vicende parallele in sincronia.
Lo spettatore, immerso nella performance artistica, si pone in una relazione più intima e confidenziale con i personaggi, esperendo la storia nella durata effettiva, costruendo autonomamente il suo discorso filmico, essendo inconsapevolmente manipolato dal linguaggio cinematografico, che interpreta il tempo in funzione del significato finale.
Con un tale operazione, Douglas Gordon, sottraendo a Psycho sonoro e sceneggiatura, fa del film un momento pittorico e scultoreo, inserendolo nelle stesse dinamiche che concorrono a formare la percezione dell’arte in un museo, attraverso la contemplazione e il percorso personale, una sorta di cammino intorno alla scultura o un ritornare davanti ad un quadro per osservarne le sfumature; Psycho è proiettato, ma in quanto immagine dipinta, a cui si aggiunge il movimento performativo di uno status dell’arte contemporanea.
24 Hour Psycho è anche il tentativo dell’artista di compiere un discorso metalinguistico che investe tanto il cinema quanto l’arte: estendendo la grammatica cinematografica, volendo mostrare la vicenda in una modalità che dia la percezione della realtà, è il tentativo di parlare del cinema come strumento che produce un pensiero costruendolo con un linguaggio ben consolidato, in particolare nell’ambiente hollywoodiano; ogni inquadratura, ogni scelta ambientale e temporale, così come quelle musicali e sonore, sono alla base di un discorso che sa già come deve concludersi e cosa deve comunicare allo spettatore.
In questo slittamento intratestuale, si sviluppa la dialettica dell’arte contemporanea: costruzione di un linguaggio nuovo o ricreazione dell’archivio artistico?
Articolo a cura di Annarita Cavaliere & Rossella Della Vecchia
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