Boccia, Confindustria e la malsana idea del lavoro
Boccia, Presidente di Confindustria, rilancia la propria idea sul mercato del lavoro. Fra le tante proposte, riemerge prepotentemente l’abitudinaria logica della produttività
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In Italia, ahimè, il lavoro è divenuto un tabù negli anni e nell’ultimo biennio si insegue sempre più una malsana idea di tutta l’attività lavorativa.
Infatti, nella nera epoca del Jobs Act, il principio base da cui si parte è: più incentivi ha il datore di lavoro più ne ha, come conseguenza diretta (spesso concetto troppo scontato), il lavoratore.
Seguendo questa particolare visione della realtà, nella giornata di ieri il Presidente di Confindustria Boccia ha lanciato una nuova, violenta, provocazione.
Secondo il rappresentante degli industriali, rincorrendo la produttività, sarebbe necessario “azzerare il cuneo fiscale sull’assunzione dei giovani per i primi tre anni”, in modo da “aumentare le retribuzioni con l’aumento della produttività, attraverso una moderna concezione delle relazioni industriali”.
La proposta di Boccia, che si fonda sostanzialmente sulla furbesca concezione del mondo del lavoro guardando esclusivamente il lato di chi ci guadagna realmente, porta ad una profonda riflessione che investe tanto la quotidianità della nostra povera nazione quanto quell’insana volontà di far passare per buono qualcosa che, in tutto e per tutto, risulta penalizzante verso vecchi e nuovi lavoratori.
Il primo punto di analisi della richiesta di Boccia è proprio quello inerente l’estenuante politica degli incentivi.
Il tipo di politica richiesto, già fallimentare come hanno mostrato i dati sulla riforma del lavoro (con un calo delle assunzione alla scadenza delle detrazioni fiscali), non solo introduce un pieno vantaggio a favore del “datore di lavore” ma, allo stesso tempo,impedisce di rimettere in moto una seria stabilizzazione del lavoro stesso.
In sostanza, si tenderebbe a creare un ulteriore effetto Jobs Act che da un lato si affievolirebbe alla scadenza della politica di incentivi fiscali e dall’altro produrrebbe nuova instabilità dettata dalle linee economiche interne.
A tutto ciò si lega il secondo punto in questione.
Concepire l’aumento delle retribuzioni (in base a nuove relazioni industriali, termine che desume una sorta di raggiro in salsa lavorativa) in base all’aumento della produttività, a solo vantaggio di chi detiene la proprietà della produzione, è una “barzelletta” antica quanto il mondo.
Questo concetto, difatti, è divenuto ormai una “cantilena” che, in un mercato del lavoro in cui dovrebbero essere modificati i paradigmi di base, avvantaggerebbe sempre una parte piuttosto che un’altra e giustificherebbe la stessa in nome di una scarsità di risorse economiche quando si presentano condizioni opposte all’ipotesi.
Ciò, in parole povere, è il classico gioco delle tre carte rifilato alla nostra nazione negli ultimi anni, in cui, nel momento di maggiore squilibrio sociale, si è determinata una tendenza a guardare solamente i “potentati” di turno rispetto ad una visione generale del paese in questione.
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