È Stata La Mano Di Dio: Sorrentino e il viaggio esistenziale
“È Stata La Mano Di Dio” è il film più intimo di Paolo Sorrentino, un compendio del suo cinema. E celebra a tutto tondo la “sua” amata Napoli
Una delle personalità più influenti dal punto di vista cinematografico, non solo in Italia ma nel mondo. Se il Belpaese è tornato a dire la sua nell’establishment internazionale, buona parte del merito è sicuramente suo. E così ora Paolo Sorrentino, forse il talento più florido della scuola italiana degli anni 2000 insieme a Matteo Garrone, torna alla ribalta ancora una volta. “È Stata La Mano Di Dio” è infatti il nuovo “parto” del suo cinema.
Il film ci presenta un Sorrentino alle prese con i suoi soliti vizi e le sue solite virtù, ma si caratterizza per essere totalmente diverso da tutti gli altri. “È Stata La Mano Di Dio” è un film che parla di maturazione, di come sia fondamentale trovare un proprio posto nel mondo. Ovviamente, è un prodotto che sfrutta i meccanismi autoreferenziali in modo anche esplicito, senza mai negare la sua natura di biografia. Allo stesso tempo, però, non invade mai lo spazio a pieno e lascia un buon margine di fiction.
Così, il nuovo film di Paolo Sorrentino è anche un inno a continuare a credere nei propri sogni, pur nelle difficoltà assolute. Soprattutto, però, l’elemento chiave che lo differenzia da qualsiasi altro film girato finora dal regista napoletano è proprio la cornice che ospita questo racconto. Perché la vera protagonista effettiva dell’opera è lei, la Napoli degli anni ’80. Colei che ospita febbricitante l’attesa nei confronti de “La Mano De Dios” del titolo, ovvero quel Diego Armando Maradona che proprio in quei giorni sbarcava nella “capitale del Sud”.
Un viaggio in cui ci immergeremo piano piano.
I giorni del miracolo
“È Stata La Mano Di Dio” si caratterizza per avere una vicenda che parla di persone che hanno perso la forza e non credono più in sé stesse. Questo è il caso di Fabietto Schisa (un bravissimo Filippo Scotti). Il ragazzo passa il pieno della sua adolescenza a Napoli negli anni ’80 in compagnia dei genitori Saverio e Maria (Toni Servillo e Teresa Saponangelo). Con lui ci sono anche i fratelli Marchino e Daniela (Marlon Joubert e Rossella Di Lucca).
Ad essi si accompagnano una serie di parenti e amici, che rendono la famiglia molto unita ed estremamente serena. Serenità che, però, si trasforma in inquietudine quando Fabietto è costretto a riflettere sul suo futuro incerto. Il giovane si riscopre inquieto e innamorato della zia Patrizia (Luisa Ranieri), donna dalla grande sensualità, che turberà fortemente la sessualità del ragazzo.
Il tutto accade nei giorni in cui, a Napoli, l’attesa è praticamente febbricitante. Il nuovo “Dio” del calcio, infatti, ovvero Diego Armando Maradona, è pronto a sbarcare nella squadra di calcio della città, portando in dote gol e assist. Il popolo è in subbuglio.
A questa crescita e a questo clima festoso, inoltre, si accompagnerà un teatro di personaggi che sono destinati a scomparire all’improvviso. Questo a causa di un improvviso avvenimento che spezzerà l’incantesimo di quest’universo e che riporterà il ragazzo alla realtà. Ciò lo porterà a riflettere su sé stesso e sul suo futuro in maniera ineluttabile.
“È Stata La Mano Di Dio” e la voglia di auto-analisi
Come detto già prima, “È Stata La Mano Di Dio” è Paolo Sorrentino allo stato puro. Si potrebbe tranquillamente parlare di opera omnia per il regista napoletano. Ed in effetti, il film raccoglie la sua identità e il suo percorso di maturazione all’interno del film e lo palesa. Alla fin fine, ciò che importa a Sorrentino è una vera e propria auto-analisi, che può forse risultare sfacciatamente referenziale. Giunto a questo punto della carriera, il suo sembra più un voler riflettere sul proprio cinema. E proprio l’intreccio tra vita ed estetica rappresenta il punto di forza del film.
Si tratta di un’opera che fa della vitalità e della sensibilità la sua maggiore cifra stilistica, facendo parlare le emozioni, sebbene resti un’equilibrio di fondo assolutamente godibile. Il risultato è un viaggio intimo, personalissimo, fra tragedia e commedia, amore e desiderio, assurdità e bellezza, mentre l’unica via d’evasione effettiva sembra essere l’uso dell’immaginazione. “È Stata La Mano Di Dio“, dunque, è anche delicatezza, laddove si predilige un racconto scarno, semplice, essenziale e mai tronfio e appariscente.
Un racconto del sé, che denota senza dubbi più di un debito con Fellini, ma che si pone l’obiettivo (raggiunto) di celebrare tutto ciò che è stato il contesto che ha formato il regista. Stiamo parlando di quella Napoli dei tardi anni ’80 che fremeva per l’arrivo della “Mano De Dios“. Dunque il contesto è apparentemente “chiuso”, sezionato, ma allo stesso tempo riesce a far immedesimare lo spettatore grazie ai suoi personaggi.
E al centro c’è una riflessione molto profonda sulla maturazione del sé, sul sondare la propria anima tramite la memoria e il vissuto. Un vissuto che parte da affronti quasi mistici per arrivare ad una riflessione molto potente sulla vita e le sue strade. E Sorrentino è completamente concentrato a raccontare uno spaccato fondamentale. C’è la voglia di sondare la propria coscienza e di trasformarla in un vero e proprio flusso. Di fondare un’unione indissolubile di immagini e suoni che si muovono all’unisono.
Il debito nei confronti dei maestri e di Diego
Ma “È Stata La Mano Di Dio” è anche la voglia, di Sorrentino, di rendere nuovamente pubblico il suo debito nei confronti dei suoi maestri. Già solo nella sequenza iniziale, tripudio di virtuosismi ad altezze siderali (quasi a richiamare il “Dio” presente nel titolo), si può riscontrare una messa in scena che tende solo in apparenza all’esagerazione. Naturalmente, la mente riporta a Fellini. Ma in realtà, la macchina da presa resta sobria pur nei suoi eccessi (qui solamente accennati), in modo tale da lasciar spazio all’intimità.
La regia è molto più equilibrata e riporta alla mente gli inizi di carriera, con un uso degli spazi che rimanda a “Le Conseguenze Dell’Amore“, ma non nella stessa accezione oppressiva. Si assiste, dunque, ad una macchina da presa semplice, scarna ed essenziale, concentrata perlopiù a raccontare uno spaccato di vita fondamentale per il regista.
Spaccato di vita che si articola anche e soprattutto tramite la figura di Diego Armando Maradona, rievocato nel titolo. Una figura che, nelle mani di Sorrentino, diventa un idolo spettrale, evanescente. Di fatto, l’argentino è un fantasma evocato semplicemente tramite racconti e immagini esterne (come il grandissimo gol all’Inghilterra) o ricostruite. Allo stesso tempo, però, si riesce a palesare il suo grande potere: quello di sostenere le vite di un intero popolo che ancora oggi gli dedica qualsiasi atto.
E quindi Maradona diventa il collante (come dirà poi anche Antonio Capuano, “maestro” dello stesso Sorrentino, nella celebre battuta “Non ti disunire“) che aggrega parti quasi consumate dal rimpianto e gli regala nuova vita. Bellissimo anche il lato tecnico, con la fotografia calda tale da catturare tutta l’empatia proveniente dal racconto e le scenografie e i costumi borghesi in modo quasi pedissequo.
Grandissimo anche il cast di “È Stata La Mano Di Dio“, che recita in modo precisissimo, usando il corpo in modo sensato e coinvolgente e facendo del dialetto l’unica vera lingua possibile (mai esasperata). Tra tutti spiccano senz’altro, oltre a Scotti, la bravissima Teresa Saponangelo, sfaccettata e incredibilmente viva, oltre alla straordinaria Betti Pedrazzi, perfetta nel ruolo “barocco” della Baronessa. Un po’ più oscurato (ma sempre ligio al dovere) Toni Servillo.
Cinema genuino e sanguigno.
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