16 Settembre 2015 - 00:30

E.F.Hansen, Corale alla fine del viaggio

15.04.1912: il viaggio perfetto, della nave perfetta perché inaffondabile, trova il suo epilogo in un irriverente squarcio nella carena perché la situazione è terribilmente semplice (…): il Titanic può rimanere a galla con i tre compartimenti anteriori allagati e, se il mare è calmo, anche con quattro. Ma non è in grado di farlo quando sono cinque

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E ben presto i compartimenti allagati diventano proprio cinque, e poi sei, e infine sette.

Ed eccolo l’ultimo viaggio di Hansen, quello degli enormi sacrifici e delle indicibili privazioni soprattutto per la terza classe: sacrifici e privazioni prima, nel mettere assieme i cinquanta dollari necessari per sbarcare a New York come prescriveva la legge sull’immigrazione; poi, nel vedersi sbarrati le porte e i portelli da sentinelle ligie fino alla disumanità al mantra di vietato l’accesso alla prima classe (quella stessa prima classe che, durante la cerimonia religiosa della domenica, si è improvvisamente scoperta accessibile a tutti); infine, sacrifici e privazioni per essere stati i primi, gli occupanti della terza classe, e per molto tempo gli unici (troppo lontani, fisicamente e mentalmente, sono i signori innalzati agli altari delle cabine “vista stelle”) ad avere la contezza della tragedia che si sta consumando.

hansen

Corale alla fine del viaggio

E quelli che la selezione naturale ha deciso dovessero appartenere alla prima classe?

Fin pochi minuti prima dell’inabissamento, sono riluttanti a calarsi nelle scialuppe (occupano 12, 24, 28 posti dei 65 disponibili), pronti a fare rimostranze a chi di dovere perché i giubbotti di salvataggio non fanno pendant con lo smoking.

Questo convincente romanzo di Hansen, però, non è la storia dell’equipaggio del Titanic e della sua manichea distinzione in ricchi e poveri, principi e mendichi. Siffatta opera vuole essere innanzitutto il racconto inventato, eppure tremendamente realistico, di un viaggio: quello ultimo dei musicisti che fino a poco prima del disastro, all’inizio per ordine del commissario di bordo (se durante le operazioni di salvataggio voi suonate, tutto sembrerà più…una specie di esercitazione), di poi per libera scelta, suonano soprattutto per esorcizzare, ancora una volta, i loro demoni.

Sullo sfondo della vicenda del Titanic, infatti, lo scrittore si sofferma sulle biografie dei protagonisti, tutti spinti a quel viaggio finale da fallimenti esistenziali più o meno marcati, quasi a conferma del Siamo impegnati in un gioco che non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto di Orwell; ognuno dei musicisti quasi in fuga da una vita che li ha visti incompresi, perduti, parti in scena di un copione che non hanno mai avuto la forza e il coraggio di fare proprio. Fino a quando, proprio in quest’ultimo viaggio che avrebbe potuto consacrare un’esistenza trascorsa a vedersi vivere, i musicisti del Titanic non si scoprono finalmente e decisamente uomini.

E qui, quasi come se le note del pianoforte di Spot e del violino di Jason si sobbarcassero il compito di tenere in vita lo spirito della nave, capiscono che non possono abbandonare il Titanic, perché è solo con l’ultimo rantolo dell’Inaffondabile che si apre il varco per il riscatto finale. E solo con la fine – ormai l’orchestra ne è pienamente consapevole – l’estrema nota potrà piantare il suo vessillo despota sulla ritrovata umanità della corale; già, proprio e solo in questo preciso momento, alla fine del viaggio.

La nave e l’oceano erano avvolti da un buio pesto. In quel momento videro il cielo illuminato di stelle. Era insolitamente limpido.

Le ultime ore del disastro, quel buio assoluto e terrorizzante contro l’acqua scura e il cielo nero: nessun film o resoconto l’aveva mai restituito con tanta angosciante realtà (Isabella Bossi Fedigotti, Corriere della Sera)

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