6 Dicembre 2017 - 12:43

Free Fire: Brie Larson e Cillian Murphy, i “Duri a morire” di Ben Wheatley

Ben Wheatley

Free Fire: Ben Wheatley ritorna con un western rocambolesco mascherato da action movie moderno dopo High-Rise con Tom Hiddleston

Trama del film Free Fire di Ben Wheatley: Boston, 1978. Due gruppi di trafficanti d’armi si incontrano in un magazzino isolato per uno scambio, ma qualcosa non va per il verso giusto ed ha inizio una spietata sparatoria.

Già da “A Field in England” (2013) Ben Wheatley aveva destato tanta curiosità rivelandosi una grande potenzialità del cinema britannico. Non è un caso che dopo aver adattato dopo due anni J. G. Ballard in High-Rise- Il condominio (2015), Ben Wheatley abbia fatto qualche passo indietro a quello che era il suo “film promessa” sui suoi disertori fuggiti da una battaglia in un campo incolto contagiati dalla follia e messi sotto scacco da un alchimista.

Con questa consapevolezza, con la grande promessa che era “A field in England” e con il suo film più ricercato stilisticamente che è forse proprio l’ultimo “High- Rise” (commissionato più che scelto), Wheatley ritorna con “Free Fire” in un’unica location ma osando stilisticamente proprio come aveva fatto con il film di due anni fa con Tom Hiddleston. Ritorna in spazi più limitati e limitanti ampliando sempre di più la sua ottica unica o originale, facendo un cinema tanto moderno e virtuosamente contemporaneo quanto lontano da tutti i prodotti a cui siamo abituati negli ultimi anni.

Wheatley e il suo cinema “personale”

Perché Wheatley a primo occhio sembrerebbe un regista con dei soggetti già fin troppo elaborati e rielaborati. Già masticati e rimasticati nel passato. Ma il suo è un cinema così personale, con dei contenuti e con delle idee così estemporanee da lasciare una visione godibile senza richiedere la troppa pazienza dello spettatore stanco delle autorialità saggistiche e iper intellettuali dell’ultimo cinema.

Free fire è un film d’azione dove il “prodotto azionistico” sono gli stessi protagonisti, le loro personalità rivolte al cambiamento e ad una risoluzione, falsamente databile a quelli che erano gli action movie fine anni settanta anni ottanta. Un cinema di exploitation dove a essere “esplosi” o ad “esplodere” sono i protagonisti che parlano, armi più delle pallottole e dei fucili che sono solo il loro “prolungamento” celebrale o istintivo. “Free fire” parte con almeno tre quarti d’ora di dialoghi per poi proseguire senza troppi fronzoli come un western mascherato da azione post-moderna tanto cara a Jon Woo e Quentin Tarantino. Ci sono rallenty e un gusto per gli interni che Wheatley aveva già dimostrato con grande eleganza in High-Rise.

Parallelismi tarantiniani

Un film girato circa in un mese, con una storyboard aneddotica molto vicina all’uso claustrofobico che ne fa dei racconti e delle trame Agatha Christie. In questo, allora, “Free fire” è molto più vicino di quanto si possa immaginare alle soluzioni di montaggio di Tarantino, soprattutto al suo ultimo capolavoro “The Hateful Eight”. Tutto è studiato in un luogo dove la politica, gli scambi sociali, sono inesplicabili e se si esplicano si creano fazioni e guerre serrate senza compromessi.

Gli spari non si sa dove vanno e da dove vengono, l’azione è pensata ma poi compromessa dagli stessi protagonisti e dalla loro stessa capacità di rimanere in gioco e cercare di sopravvivere. Paradossalmente però, se Wheatley è molto vicino per approccio all’ultimo capitolo cinematografico di Tarantino, lo si direbbe anche della scrittura dei dialoghi corposi. Ma la loro provenienza è linguisticamente vicina al black humour inglese. La scrittura non è mai verbosa.

È spinosa, fessurale e beffarda, si prende sempre gioco di se stessa senza mai autoproclamarsi e compiacersi. Wheatley non rimanda mai a se stesso, non si fa mai guardare, come invece fa lo spirito tarantiniano, ma si subisce. Wheatley ha mille idee strategiche nel saper collocare personalità in piccoli spazi e nel saper riprendere il loro ruolo sociale un po’ alla Polanski, la loro forza e debolezza, in quella precisa inquadratura, in quel preciso sparo di pistola.

Un’azione pensata, ragionata, causa-effetto di un gioco corale ben oleato che prende di mira come in High Rise più i cervelli e gli spiriti feroci che i corpi stessi. Vicino a The Hateful Eight di Tarantino però, è anche l’aver posto un unico personaggio femminile al centro di una catarsi tutta maschile ma qui, mai maschilista a differenza del cinema dell’americano.

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