20 Aprile 2018 - 11:43

“Ghost Stories”: recensione dell’horror di Jeremy Dyson e Andy Nyman

Ghost Stories

Se ne parla tanto. “Ghost Stories”, dopo l’opera teatrale, l’horror cinematografico di Jeremy Dyson e Andy Nyman: la recensione

Qual è il mestiere dell’horror? Soprattutto qual è il suo mestiere negli ultimi anni? E’ questo che ci si chiede ininterrottamente durante la visione di quella che è la prima opera di Jeremy Dyson e Andy Nyman, adattamento della loro omonima opera teatrale.

Guardando agli ultimi anni, sono pochi gli horror che vale la pena ricordare. Verrebbe da ricordarli  a prima analisi contandoli in una sola mano. Forse anche meno: “It Follows” di David Robert Mitchell, “Le streghe di Salem” dell’ormai “maturo” Rob Zombie, “The Witch” di Robert Eggers (forse il più bello in assoluto degli ultimi anni) e “The Wailing” di Na Hong-jiin. Enormi, a loro modo (im)perfetti e a prima lettura distanti fra loro. Diciamo fin da subito però, “Ghost stories” non merita né il podio né il quinto posto in una classifica ideale.

Il mestiere dell’horror

Senza perderci e andarcene troppo per le lunghe, l’horror dovrebbe avere un mestiere duplice. A chiederlo in giro, ormai si perde tempo. Ciò che deve fare prima di tutto è “spaventare”. Siamo alla semplice grammatica, a b c. Non “spaventare” come ci si “spaventa oggi”, perché anche lo spavento ha un capo e una coda. Più che “spaventare” come ci si spaventa oggi, deve “angosciare”. Qui, il primo punto, quello fondamentale.

A spaventare si gioca facile. A spaventare si spaventano tutti. Oggi l’angoscia si chiama solo “jumpscare”. Cioè quell’approccio difficile che si ha con la poltrona quando il sonoro pompa nelle casse ed esce nell’inquadratura qualcosa di mostruoso. Prima “spaventare” significava “angosciare”, adesso quell’angoscia è sempre più sedotta dall’effetto sorpresa, che non è “angoscia”, ma è non “essere avvertiti”. Il secondo mestiere dell’horror è quello di tracciare una storia forte.

A tratti e in alcune opere singolari, questo non è neanche tanto importante, ma quando si è grandi registi! L’horror deve (anche) essere promotore di  un dialogo, di un messaggio, di una sublimata discussione con il proprio spettatore, che si ricollega unicamente al primo punto, quello dell’angoscia.

Perché ci si “angoscia” più si è vicini ad una storia, ad un sistema di empatie, a dei conflitti interiori, ad una lotta metaforizzata poi con il potere del genere. Mettiamo “Shining” di Stanley Kubrick, giusto per citarlo, perché quando si parla di horror è uno dei capolavori eterni. Shining è (anche) perfetto perché “è una radiografia familiare”. È il prodotto cinematografico di un uomo che non aveva mai fatto horror, super poliedrico, sempre critico e lungimirante nei confronti del mondo e del suo sguardo. L’horror quindi è assodato che debba partire dal “vero” per poter spaventare? Deve empatizzare strizzando l’occhio a temi conflittuali dell’uomo? L’horror è ancora horror, quando oltre a fare davvero paura, ha qualcosa da raccontare.

(Ri)leggere l’horror

Il problema principale è che l’horror, che ha sempre avuto una vita difficile, un po’ borderline, oggi è più lontano di quello che crediamo. “Ghost stories” allora cosa fa? Dimostra effettivamente che questo “sottogenere” può dare anche tanto, quel tanto che però non basta a fare di “Ghost stories” un horror bellissimo.

Perché se da una parte, la prima opera di Jeremy Dyson e Andy Nyman parla chiaro fin dall’inizio allo spettatore, vuole essere “horror d’altri tempi”, un po’ facendo il verso al periodo episodico di Alfred Hitchcock, o all’opera casereccia iniziale di Sam Raimi, vuole parlare (ancora) di fantasmi in modo autentico, spurio della “spettacolarizzazione” di quell’oggi così effettivamente lontano dalla consistenza reale della “genetica horror”, è anche vero che i momenti raramente e melodicamente “angoscianti” sono pochi perché troppo spesso, cedono il posto al “visibile”.

Se “Ghost stories” fosse stato un film di presenze e basta, un horror del “sentire”, un horror del “dubitare”, “dell’attesa”, un horror pseudo erotico del “vedo non vedo”, sarebbe stato perfetto.

Ghost stories: un horror a metà

La regia c’è, gli attimi di terrore ci sono, c’è tutto. C’è soprattutto alla fine di ognuna delle tre storie raccontate un “raccontare” ancora per immagini, come l’horror però ci abituati oggi. È vero, nei racconti di notte intorno al fuoco, o in una stanza buia prima di andare a dormire finiscono sempre con un “jumpscare”. Ma è proprio qui che non funziona “Ghost Stories”, non solo non lascia niente in sospeso, ammortizzando l’atmosfera, ma rende le nostre paure, ad ognuno dei tre atti, vere e fisiche tanto da spiattellarcele in faccia con gli effetti di “oggi”, con la paura di “prima”.

Non ci cade completamente però, Ghost Stories, nell’horror che ci promettiamo di vedere maldestramente e sempre più spesso negli ultimi anni. Ha il merito soprattutto di terrorizzare quando parla di famiglia, di maternità, di figli, di fede, di senso di colpa. Ha ragion di esistere e di essere un buon horror quando parla di adolescenza, di rimpianto e di dolore. Ma sembra proprio non bastare, ancora e purtroppo.

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