21 Marzo 2022 - 16:49

Guerra in Ucraina, l’esodo di chi scappa dalle bombe

Il racconto e gli scatti di Ivan Romano che ha raccontato l'esodo dei profughi in fuga dalla guerra in Ucraina

guerra in ucraina

La guerra non è uno scherzo, per affrontarla non può bastare la teoria, non può bastare la migliore protezione in kevlar. Correre a volte aiuta ma la naturale fiducia che si ripone negli uomini e nelle donne che fanno la società, in un contesto bellico non ha valore. La scorsa settimana è morto un giornalista americano Brent Renaud, uno che le guerre le ha raccontate in vari scenari e non è stato neanche il primo operatore della stampa a morire in Ucraina, la sua morte segue quella di un operatore della TV nazionale morto durante l’attacco alla torre di Kiev. Mentre scrivo Fox news ha annunciato la morte del cameraman Pierre Zakrzewski, rimasto vittima assieme alla giornalista Alexandra Kuvshinova, per le conseguenze dello scoppio di un colpo di mortaio. E’ un prezzo che si conosce, per qualcuno è l’opportunità sistemica nella quale manifestare un’appartenenza, per altri è anche l’occasione per impartire il solito sermone esperienziale che rimanda alle attrezzature, ai corsi, al pregresso professionale, come a voler rivendicare una comunione tra ciò che è possibile e la deontologia, come se non avessimo tutti compiuto degli errori, preso dei rischi, come se non ricordassimo le foto dei fotogiornalisti in Vietnam, Iraq, Ruanda, Jugoslavia, privati di qualsiasi sicurezza, segno di un’evoluzione che purtroppo non diminuisce le vittime.

L’invasione dell’Ucraina traccia un mutamento epocale dei rapporti di forza nello scenario geopolitico. Le categorie a cui ci siamo abituati dal crollo del muro in poi, sono in discussione, non è più il linguaggio del potere commerciale che ci ha di fatto trascinati in un conflitto globale, quella terza guerra mondiale da cui la Cina stava uscendo vittoriosa. Con l’Ucraina si apre un nuovo tempo, se vogliamo anacronistico rapportato al benessere della nostra società, ma un tempo che l’umanità conosce bene, alla quale forse noi Europei contemporanei, quasi stentiamo a riconoscere le conseguenze reali, ma che è perfettamente inserito in una filosofia ancora ben diffusa, basti osservare le mappe sui conflitti in corso.

Le categorie filosofiche impongono strategie a tutela degli interessi nazionali e la follia non è una motivazione onesta che possa tradurre e spiegare l’immagine di Putin, può essere esaustiva nel bar o sulla bacheca di un social. La verità è che i rapporti di forza espressi nei conflitti e nei movimenti di protesta finanziati in vari scenari, hanno finito per trasferire le conseguenze della guerra, in un territorio che sfiora l’occidente della pace e che i contesti che accompagnano questo conflitto, sono tremendamente fragili. Come un funambolo la pace è minacciata in bilico tra lo strapiombo e i venti che sferzano le creste dove ci siamo impantanati. Questa volta lo scenario non si consuma sul territorio dei signori della guerra, dell’oro nero e della povertà di popoli sottomessi, i missili cadono su città moderne, i contadini abbandonano e non seminano i campi che sfamano mezza Europa, i contraenti hanno centinaia di testate nucleari.

L’Ucraina non è il primo conflitto social, già in Siria abbiamo potuto assistere ad una narrazione in tempo reale, prodotta dalle vittime e difficilmente razionale, credibile, non tanto e non solo per una mancanza di professionalizzazione nella produzione dei contenuti, ma dalla facilità di penetrazione della propaganda, capace di intercettare le fonti parziali e indirizzarle a seconda dell’esigenza. In Ucraina si è però scatenato il bisogno di narrazione non solo da parte delle vittime, ma anche per la relativa semplicità di accesso ad una guerra europea che rischia di essere ridotta ad opportunità di rivendicazione, una nota da curriculum, in uno scenario nel quale civili girano con mitragliatori automatici di ultima generazione.

Un giornalista o un fotogiornalista ha in se il bisogno fisico della narrazione, ma occorre avere ben presente i contesti, senza lasciarsi andare a desideri troppo intimi. Per questa ragione ho scelto di narrare l’esodo degli ucraini, concentrando le mie risorse sulle conseguenze più umane della guerra. Quelle stesse conseguenze che abbiamo visto e che ho raccontato nelle popolazioni di Iraq, Yemen, Afghanistan, Siria, Palestina.

Sul confine Polacco, l’Ucraina si lascia penetrare su nuove e belle autostrade che a Hrebenne e Medyka permettono l’uscita di migliaia di profughi ogni giorno e tra questi valichi a Korczowa l’ingresso di rifornimenti su camion civili e convogli militari con mezzi di fabbricazione italiana privi di targhe e bandiere nazionali. Qui campi di prima accoglienza sono sorti appena oltre la dogana dell’Unione Europea e il viavai di autobus, furgoncini, automobili, si alterna a tende ospedaliere di primo soccorso, cucine, accampamenti dove si possono trovare beni e vestiti. Questi campi sono come dei caravanserragli polverosi, dove la notte si accendono fuochi e il frenetico andare del popolo Ucraino si manifesta nel mutamento dei volti che si alternano senza soluzione di continuità. Anche a sud tra le montagne imbiancate di Krościenko e sui confini Slovacchi di Vyšné Nemecké ci sono le stesse scene, volontari che offrono pasti caldi, cittadini che vengono a portare passeggini, altri beni o che si offrono di accompagnare un gruppo verso le stazioni interne o gli aeroporti. Soprattutto ci sono i volti degli ucraini e delle ucraine che fuggono, sono il ritratto del terrore, smarriti e senza domani.

L’ondata è come la piena di un fiume che travolge argini fragili, confini che hanno un valore nominale che separano certo, popoli con storie e lingue differenti, ma che si annullano quando occorre dare assistenza. Su tutta la linea del confine Polacco e Slovacco, tantissime persone restano silenziosamente in attesa dei cari, tenendo fermo lo sguardo all’Ucraina in attesa di una sagoma familiare, molti restano in attesa per giorni e notti intere, mentre la folla confluisce dall’imbuto della dogana. Tanti si abbracciano, liberandosi in pianti di gioia che a stento risolveranno la nuova condizione, quella di profugo in fuga, senza più i muri di una casa dove magari si è vissuto per generazioni sotto lo stesso cognome.

Tra le mille disgrazie della guerra, l’abbandono dei luoghi della propria esistenza, deve essere di gran lunga la peggiore pena, poiché la morte è definitiva e silenziosa, tanto saldamente eroica, come nella fermezza degli uomini che restano o che ripercorrendo controvento le dogane, andando in direzione del proprio destino. Su questo siamo assolutamente distanti, il nostro mondo è lontano da questi valori di estremo sacrificio e non riusciremo con facilità a discernerne le ragioni oscure.

Mentre le stazioni di tutte le cittadine per centinaia di chilometri si riempiono di disperati in maggioranza donne, bambini e anziani orfani dei giovani che in armi sono rimasti in patria, quegli stessi luoghi vengono raggiunti da centinaia di volontari che si offrono di solidarizzare, in una mescolanza di colori e lingue che difficilmente potrebbero stare assieme e che invece assimilano la specie umana, ad un’unica grande famiglia.

Fare delle previsioni su ciò che sarà, è un esercizio assai complesso se non del tutto inutile, eppure in quelle lande imbiancate tanto simili a quelle percorse all’inverso dall’esercito d’invasione italiano durante il secondo conflitto mondiale, o sui crinali della linea gotica su cui ancora emergono i relitti di battaglie vecchie ormai di ottant’anni, ciò di cui non possiamo privarci, sono i volti di chi fugge dalle bombe, poiché il nostro benessere ha acquisito un valore di normalità, proprio perché fondato sulle storie e memorie di chi ha ascoltato le sirene antiaeree e le brutalità del novecento.

Articolo e foto a cura di Ivan Romano

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