Il pittore che voleva dipingere tutto. Io, Claude Monet
Nexo Digital presenta Io, Claude Monet: al cinema il 14 e il 15 febbraio. Attraverso gli scritti e più di cento dipinti filmati in alta definizione, si restituisce allo spettatore un ritratto nitido sulla travagliata vita interiore del pittore impressionista
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A partire dagli scritti di Claude-Oscar Monet (Parigi, 1840 – Giverny, 1926) – circa tremila lettere declamate e citate dall’attore britannico Henry Goodman – e dalla testimonianza delle sue opere, conservate nei più importanti musei del mondo, il 14 e il 15 febbraio il cinema omaggia il grande pittore con il docu-film di Phil Grabsky, nelle sale che aderiscono alla stagione della Grande Arte al Cinema di Nexo Digital.
Di origini familiari assai modeste, Monet, pur potendo contare sull’aiuto di una ricca zia che incoraggiava il suo talento nel disegno, non si iscrisse mai a regolari corsi accademici, a cui preferì la pittura en plein air, dove poter liberamente attingere alle sue sperimentazioni sulla luce e sulla percezione dei colori.
La natura scandita dall’arco della giornata era per Monet fonte inesauribile di ispirazione per atmosfere e sensazioni: la dimensione che ne deriva è quasi fiabesca, in cui la realtà sussiste come pretesto per dare colore e sfumature alle proprie percezioni delle cose. Qualcosa di innato ed ancestrale: “Io dipingo come un uccello canta”, sosteneva il pittore impressionista.
Una carriera pittorica incentrata sulle rifrazioni della luce, sui derivanti riflessi e dissolvenze, con cui Monet aveva iniziato sulle rive della Senna.
Una ricerca artistica che portò avanti fino alla fine, separando l’immagine, come fatto interiore, dalla sua esteriorità ed oggettività.
E se da giovane, Monet aveva elaborato una tecnica rapida per cogliere l’immagine percettiva nella sua immediatezza, nel tempo aveva padroneggiato la durata dell’impressione.
Con il suo Impression. Soleil levant, esposto nell’aprile del 1874 nello studio del fotografo Nadar, diede involontariamente il nome al movimento francese di fine ‘800, quando il critico Louis Leroy lo etichettò così con senso dispregiativo.
Tra i padri dell’Impressionismo, i suoi primi anni furono caratterizzati da molte amarezze artistiche, acuite anche da una forte depressione e da gravi problemi economici. Il successo arrivò solo dopo il 1880, anno della sua ultima presenza al Salon.
Io, Claude Monet è un viaggio intimo nella vita del più impressionista degli Impressionisti, nell’euforia dell’artista e nella depressione dell’uomo, nell’affannosa ricerca della bellezza e nell’ossessione per le ninfee.
Nel ciclo de “Le Ninfee”, circa 250 dipinti, Monet presenta la sua visione del giardino situato a Giverny, che occupò sostanzialmente gli ultimi trent’anni della sua produzione, segnata anche da seri problemi alla vista. Eppure l’amore per la natura, la pittura, la sensazione percettiva del mondo furono più forti dello stato delle cose: Monet voleva dipingere tutto, fino alla fine.
“Ho dipinto tante di queste ninfee, cambiando sempre punto d’osservazione, modificandole a seconda delle stagioni dell’anno e adattandole ai diversi effetti di luce che il mutar delle stagioni crea. E, naturalmente, l’effetto cambia costantemente, non soltanto da una stagione all’altra, ma anche da un minuto all’altro, poiché i fiori acquatici sono ben lungi da essere l’intero spettacolo, in realtà sono solo il suo accompagnamento. L’elemento base è lo specchio d’acqua il cui aspetto muta ogni istante per come brandelli di cielo vi si riflettono conferendogli vita e movimento. Cogliere l’attimo fuggente, o almeno la sensazione che lascia è già sufficientemente difficile quando il gioco di luce e colore si concentra su un punto fisso, ma l’acqua, essendo un soggetto così mobile e in continuo mutamento è un vero problema. Un uomo può dedicare l’intera vita a un’opera simile”.
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