24 Dicembre 2019 - 15:56

Il Pinocchio periferico di Matteo Garrone: recensione

Pinocchio

Una panoramica completa su  “Pinocchio”, nuovo film di Matteo Garrone, dal 19 Dicembre al cinema con 01 Distribution e un cast stellare

Ogni regista o intellettuale tout court ha le proprie ossessioni, e Pinocchio è per Matteo Garrone una di queste. Il regista romano ha lavorato probabilmente tutta la vita per arrivare a mettere in pellicola la Storia di un burattino di Carlo Collodi, e dal 19 Dicembre scorso il risultato è al cinema con 01 Distribution.

Il Pinocchio di Garrone è pittorico e filologicamente fedele al testo fonte originale (laddove alcune riduzioni più palpitanti dal punto di vista emotivo non lo erano state) ma manca proprio, appunto, di momenti che ti stringono il cuore.

Tre lezioni che ancora oggi Pinocchio ci consegna

La galleria dei personaggi non perde, tuttavia, la propria carica esemplare: così se il Gatto e la Volpe ci insegnano che non esistono strade facili, la Fatina è lì a ricordarci, mentre cerca di convincere Pinocchio a mandare giù la medicina, che alle volte nella vita anche il dolore è necessario.

Infine, la “degradazione” di Pinocchio in un ciuchino, fenomeno da baraccone,  vuole lasciarci intendere che tutti abbiamo un potenziale, un cuore che batte sotto una corazza di legno, e che è nostro compito non mortificarlo, mercificarlo, per compiacere le aspettative di qualcun altro.

Più punti di vista sulla povertà

Il cast di “Pinocchio” è di quelli che aizzano le migliori strategie pubblicitarie: primariamente c’è il Premio Oscar Roberto Benigni che con il suo Geppetto “educato” e “leggero” riesce a farci dimenticare che lui stesso, era il 2002, è stato il burattino di Collodi in una disastrosa riscrittura del romanzo. La sua interpretazione sembra un più o meno velato ma sentito omaggio a quel Manfredi che, sotto la direzione di Comencini nel 1972, ci ha regalato il Geppetto televisivo più accorato che critica si ricordi.

Benigni e Garrone ripercorrono, portandola alle estreme conseguenze, la strada drammaturgica già battuta da Comencini e Manfredi rendendo il “loro” film quasi un affresco neorealistico sulla povertà.

La povertà di Geppetto non è però solo materiale (indicativa la scena in cui letteralmente viene spogliato di quasi tutto ciò che ha, per comprare l’abbecedario al suo burattino-figliolo) ma è anche povero di calore umano: i suoi rapporti con l’ambiente sociale in cui abita si riducono ad un anonimo scambio di favori ed averi, ed è in quella zona di vuoto che il suo rapporto con Pinocchio va ad inserirsi, diventando presto ben più del mero contrappunto tra creatore e cosa creata.

La cifra della povertà mi ha fatto anche rivalutare i personaggi di Gatto (Rocco Papaleo) e Volpe (Massimo Ceccherini, che ha collaborato alla sceneggiatura di Pinocchio, ndr.): in fondo, anche loro sono vittime della stessa piaga di Geppetto (e di un’Italia costruita fisicamente ma ben lontana dall’esistere come entità sociale e culturale), solo ne parano gli urti in maniera diversa: Geppetto ha scelto un lavoro onesto, i due preferiscono spiluccare di osteria in osteria.

La povertà che investe tutto il “Pinocchio” di Garrone è, infine, anche di tipo valoriale, le istituzioni che la animano hanno del tutto perso di vista la loro missione: i tribunali mandano in galera gli innocenti, e la scuola preferisce punire che spiegare, trincerata com’è in un precettismo fine a se stesso.

Attimi di sospensione: il teatro e il Paese dei Balocchi

Ma ci sono dei momenti in cui questa povertà si “sospende” o quantomeno sembra ininfluente, prima di tutto con il teatro, più in generale con tutte quelle attività che aguzzano la fantasia, come le favole nella favola raccontate dalla Lumaca (Maria Pia Timo).

Sono due le figure di teatranti che Pinocchio incontra sulla sua strada: Mangiafuoco (Gigi Proietti) e Il Corvo (Massimiliano Gallo). Si tratta di due personaggi quasi agli antipodi, soprattutto nel loro modo di rapportarsi al burattino che sogna di diventare un bambino vero: se il primo, fatta salva un’apparenza truce e mastodontica è comunque incline alla commozione, il secondo non sembra avere scrupoli quando decide di annegare l’asinello Pinocchio per fare con la sua pelle un preziosissimo tamburo.

Luogo di “sospensione” per eccellenza è, però, il Paese dei Balocchi.Quando lo delinea, Garrone tiene fede all’idea iniziale di ciò che doveva essere il suo Pinocchio. Bandito ogni luccichio, il Paese dei Balocchi è perciò un luogo semplice e minimale: si può fare il gioco della corda, andare su uno scivolo di paglia e provare a volare su un’altalena.

La Fata

Che il Pinocchio di Garrone nasca da un’importante sforzo filologico, lo si capisce dallo spazio tributato al personaggio della Fata: in altre riduzioni, la donna dai capelli turchini è direttamente adulta, qui invece è anche bambina, nel rispetto delle pagine del Lorenzini.

La Fata (Alida Baldari Calabria da bambina, Marine Vacth da adulta) conserva il suo status di personaggio provvidenziale, adoperandosi per salvare il suo fratellino almeno tre volte.

E’ con lei, nell’assistere al suo passaggio da bambina ad adulta, che Pinocchio (interpretato da  un Federico Ielapi forse acerbo ma paziente per essersi sottoposto a quattro ore di trucco ogni mattina prima di girare, ndr.) viene per la prima volta ad impattare con la forza plasmatrice del tempo, la sola ricchezza di cui (forse) siamo padroni.

Pinocchio: “Come hai fatto a crescere?”

Fata: “E’ un segreto”

Pinocchio: “Anch’io voglio crescere”

Fata: “Ma tu non puoi, perchè sei un burattino”

Pinocchio: “Ma io non voglio essere un burattino, Io voglio essere un bambino come tutti gli altri”.