3 Aprile 2018 - 10:30

Riccardo va all’Inferno: La recensione di Zon.it

Riccardo va all'inferno

In “Riccardo va all’Inferno”, Roberta Torre rilegge in chiave punk il “Riccardo III” di Shakespeare. Nel cast del film che ha di recente ricevuto un David di Donatello per i costumi di Massimo Cantini Parrini, Massimo Ranieri e Sonia Bergamasco

Con “Riccardo va all’inferno”, Roberta Torre ci ha dimostrato che per parlare di potere, ambizione, ossessione, non c’è bisogno di sterminati campi di battaglia vibranti di sanguinolenti eserciti, né di opulenti regge. La regista, in un’operazione che non è assolutamente semplicistica, asciuga una delle trame più complicate di Shakespeare, riportando tutto al più piccolo microcosmo sociale, una famiglia.

I temi

Il Riccardo III di Shakespeare è, a tutti gli effetti, un machiavelliano, che si lascia dietro una serie di delitti in nome della sua ambizione, della sua sete di potere. Nel testo di partenza questo anelito ha un corrispettivo materiale nella corona, nel trono di Inghilterra. Nel testo filmico della Torre, invece, il potere vuol dire avere il controllo sul floridissimo mercato della droga messo in piedi dai Mancini.

I due Riccardi, poi, fanno partire la loro vendetta da due punti diversi della scala del Grande Meccanismo riconosciuta da critici shakespeariani come Jan Kott: il re della fonte originale, all’inizio del testo, non ha ancora conosciuto cadute. Il protagonista della rimediazione della Torre, invece, risale man mano la scala del potere, dopo aver trascorso molti anni in sanatorio, ingiustamente.

Lo spazio scenico in cui si snoda tutta l’azione, è diviso in due: nella parte superiore del castello, vivono i familiari di Riccardo, al piano inferiore c’è invece l’aspirante re con i suoi “congiuranti“, la cui recitazione straniata ed i movimenti marionettistici li rendono al più fantocci in mano ad un grande regista.

Da questo scantinato, Riccardo studia le sue mosse per riprendersi il potere. Anche lui, come nel precedente shakespeariano, si lascia dietro un’ indicibile catena di delitti, per i quali però non si sporca quasi mai le mani, ma la sua “corte” è formata da un insieme di corrieri che hanno reso il suo tempio punk un avamposto dello spaccio.

“Riccardo III” ai tempi de “Le Vite degli Altri”

Nel testo del drammaturgo di Stratford Upon-Avon ci sono almeno tre scene su cui vale la pena porre l’attenzione per vedere come sono state ri-trattate in “Riccardo va all’Inferno”: la prima è quella della condanna ingiusta di Clarence, che qui è Giò il Rosso (Michelangelo Dalisi), il quale viene accusato ingiustamente dell’omicidio di due “corrieri”. La sua condanna qui, non passa attraverso l’azione delittuosa di due sicari che, nel frattempo, si interrogano sulla natura della coscienza, ma avviene attraverso l’azione massiccia dei mezzi di comunicazione: giornali e tv, sono, nel riadattamento della Torre una delle tante addiction di cui il film è disseminato. La fame degli avvoltoi da tubo catodico è qui riassunta in un personaggio dell’esercito di Riccardo che, ogni volta che compie un delitto per conto del suo signore, si fa un selfie col cadavere senza riuscire mai a smettere di sbavare.

Non trascurabile, a proposito dell’apporto dei media nell’economia narrativa del film, è poi il fatto che “gli scagnozzi” di Riccardo, dalla cantina in cui sono rintanati ascoltano tutte le conversazioni che avvengono al piano di sopra, in un’operazione che, sulle prime, ricorderebbe ciò che avviene in Le vite degli altri di Von Donnersmarck.

La seconda scena che merita la nostra attenzione è quella della seduzione di Lady Anna. Nel film la donna, interpretata da Antonella Lo Coco, non è la moglie di Edoardo ma semplicemente la consorte di uno dei corrieri/zii  uccisi. La forza testuale del dialogo è rispettata grazie ad un’incisiva lirica di Mauro Pagani, che ha scritto le musiche del film, in cui i due sono inizialmente posti su intenti diametralmente opposti, ma la donna alla fine si lascia sedurre, trovando la morte.

E’ questa una delle scene che più hanno acceso la fantasia dei registi che si sono avvicinati al Riccardo III: Ian McKellen, per esempio la fa avvenire nella stanza dove si è appena concluso l’esame autoptico sul corpo di Edoardo (1992) o ancora, Al Pacino, in Looking for Richard la fa avvenire in un bagno pubblico. In “Riccardo va all’Inferno”, essa invece si consuma in un luogo del grande Castello, reso punk dalla fotografia di Matteo Cocco.

La già citata fotografia ha, poi, un ruolo drammaturgico fondamentale perchè contrappone lo “sporco” del presente (col colore nero) all’imperturbabilità dei ricordi del passato (di un bianco assordate), che poi sono i veri nemici da cui Riccardo deve difendersi.

Il nostro non deve infatti guardarsi da una minaccia esterna (nella fonte originale identificata con Richmond) ma da una minaccia interna, familiare.

La Regina Madre

E’ con il personaggio interpretato da Sonia Bergamasco che Roberta Torre dimostra la conoscenza di una tradizione drammaturgica che va ben oltre Shakespeare: nelle scene finali il conflitto madre-figlio assume contorni più nitidi. Riccardo improvvisamente diventa l’Oreste eschileo a cui è stato strappato il padre e la Regina Madre, di contro, una Clitennestra che, pur scendendo per prima all’inferno, spogliandosi di ogni orpello, qui non ha bisogno di chiedere aiuto alle Erinni, fa tutto da sola.

La vera Erinni qui piuttosto è Betta (Silvia Gallerano): è lei che, come quella che fu Margherita d’Anjou nel testo fonte, lancia i suoi anatemi.

Riccardo dunque alla fine non morirà per mano di Richmond. E’ vero, almeno inizialmente lo spettatore è portato a pensare che quel Romolo (Ivan Franek) con cui stringe alleanza sia quello che poi lo spodesterà. Ma non è così. Eppure, Riccardo va all’inferno lo stesso: ed è sul fondo della sua anima liquida, e rossa come il sangue, che incontrerà tutti i morti che pesano sulla sua coscienza.

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