25 Ottobre 2021 - 12:26

Tempi eccitanti: recensione del libro

tempi eccitanti

Tempi eccitanti, tra amore, paure e legami. Il romanzo d’esordio di Naoise Dolan entra nei cuori dei lettori

Tempi eccitanti è il romanzo d’esordio di Naoise Dolan. Pubblicato dalla casa editrice Atlantide e tradotto da Claudia Durastanti, è uscito in Gran Bretagna nell’aprile 2020 ed è diventato un bestseller. La protagonista, nonché voce narrante dell’intera storia, è Ava, una ragazza di ventidue anni che appartiene ad una famiglia di ceto medio e che si trasferirà dall’Irlanda a Hong Kong. In questa meravigliosa città la vita di Ava cambierà completamente: divenuta insegnante sottopagata di inglese, la sua esistenza oscillerà continuamente tra due persone tanto simili quanto opposte: Julian e Edith.

Julian, giovane banchiere inglese poco più grande di lei, sarà il “primo amore” di Ava. Il loro incontro, fin dal primo istante, suscita in Ava un profondo senso di inadeguatezza. La loro comunicazione non è autentica, è sterile ed è condita sapientemente di sarcasmo sottile e di dettagli omessi al fine di non coinvolgersi mai emotivamente. Ava rimane affascinata dalla bellezza e dallo status di questo ragazzo e lui, come per riflesso, si sente estremamente lusingato da tutto questo: “Mi piacevano i suoi soldi e a lui piacevano quanto facessero colpo su di me”.

Julian propone ad Ava di andare a vivere con lui nel suo lussuoso appartamento.

Il legame di Julian e Ava assume in Tempi eccitanti, fin da subito, una connotazione strana ed ambigua e si presenta come un rapporto privo di alcuna definizione: “Julian, cosa siamo?”. “Sarei un pazzo a saperlo”.

I due sembrano essere entrati in una bolla indefinibile e si scambiano degli stralci di vita, degli spunti di quotidianità e dei ricordi concernenti il loro passato. Tutto è silente, tutto si muove in modo apparentemente lento e tranquillo, tra un messaggio in chat e un gioco di sguardi, tra una chiacchierata di stampo culturale, fredda ed impersonale, e paure nascoste nelle parole, celate e sepolte per sempre dalla dolcezza del silenzio. Julian è enigmatico, emotivamente freddo ed è convinto che con il denaro si possa comprare tutto, persino il tempo che Ava trascorre con lui: “Grazie per il tuo tempo”.  Ava inizia gradualmente a scomparire. La sua identità inizia a vacillare, a sgretolarsi. Julian è al centro della relazione: è bello, biondo, ricco e divino.

Ava, come direbbe Robin Norwood, è “una donna che ama troppo”, una donna che sente di esistere soltanto nel momento in cui riesce ad instaurare una comunicazione profonda con Julian: “Mi piace parlare con te”, ho detto tutto sommato stupidamente, e me ne sono accorta subito. “Mi fa sentire solida, come se qualcuno autenticasse il mio essere reale”.

Ben presto, infatti, Ava comincia ad autenticare il proprio io tramite gli occhi di Julian. Nel suo sguardo Ava ricostruisce e convalida se stessa. Il sesso, all’interno del loro legame, diventa per Ava l’unico mezzo per tentare di raggiungere l’intimità di quell’uomo criptico e irresponsabile:

“La mattina dopo abbiamo fatto sesso e per un po’ mi sono sentita al sicuro e al caldo e compresa. Lo graffiavo molto, lui mi chiamava cucciolo di tigre, e io ho fatto finta di trovarlo troppo infantile perché in realtà mi rendeva molto felice.

Cosa insolita, mi ha accarezzato i capelli. Ha detto che ero piaciuta a tutti a casa di Victoria”.  Ava vorrebbe sentirsi amata con le parole, con la delicatezza degli sguardi ma Julian si limita a dire poche cose. Ava, inconsciamente, è eccitata all’idea di essere piccola e di scuotere con il suo dominio l’apatia di Julian e vorrebbe tanto che la loro differenza d’età (22-28 anni) costituisse per il ragazzo un incentivo a proteggerla ed amarla:

“Senti, devo andare. Ho una sfilza di riunioni domani. Ma è stato bello parlare. Ci sentiamo presto, bambina”.

“Mi piaceva quella parola, “bambina”. Mi faceva sentire considerata”.

La “relazione” di Julian e Ava si trasforma, con il tempo, in un gioco di potere, fatto di imperturbabilità e di piccole vittorie digitali, come l’eliminazione di un messaggio in bozza e la non visualizzazione di una storia su Instagram:

“Quando è arrivato il mio turno di ordinare il caffè ho cancellato la bozza con l’aria di chi adesso doveva occuparsi di cose serie”.

Ava con Julian non è sé stessa ma recita un ruolo che viene completamente rovesciato dall’incontro con Edith, il “secondo amore” di Ava:

“Sono così felice”, ho detto.

“Anche io”, ha commentato lei.

Anche la ventiduenne Edith, come Julian, è una ragazza ricca e in carriera, un’avvocatessa dolce, precisa, brillante e dotata di una spiccata intelligenza emotiva: “Le ho detto di smettere di leggermi così bene, e lei ha riso […]. Ma la verità è che mi piaceva quando mi psicanalizzava. La sua aria di oggettività assennata e consapevole mi rassicurava che qualcuno aveva la situazione-me- in mano”.

In un primo momento Ava sembra effettuare un pedissequo parallelo tra Edith e Julian, quasi come se si trattasse di modelli da emulare, di archetipi da osservare da lontano e da costruire e ricostruire: “Mettevo Julian e Edith a confronto. Non erano abbastanza simili da essere gemelli né abbastanza diversi da essere l’uno il contrario dell’altra. Eppure continuavo ad avere una finestra aperta su Edith, un’altra su Julian, e a fare avanti e indietro”.

Edith propone sempre ad Ava di vedersi, ma lei non osa perché non si stima e non si ama. Non vede Edith e Julian come due anime con le quali fondersi, ma come degli “ideali” di perfezione da non disturbare: “Era sempre Edith a suggerire che ci vedessimo. Io non mi azzardavo. Il suo tempo, come quello di Julian, era importante”.

 In un secondo momento Edith, a differenza di Julian, riesce a conoscere e a toccare il punto più profondo di Ava, captandone la sua fragilità e il suo desiderio di essere amata davvero. Ava vede in Edith una salvezza dal mondo maschile, un mondo dal quale Ava si è sempre sentita vista ma mai guardata: “Eri spaventata quando gli uomini  ti venivano dentro, anche se non sapevi bene se toccava a tutte le donne irlandesi o solo a te, e a volte dicevi vuoi venirmi in bocca perché, dopo tutto, ti sentivi come se gli dovessi ancora qualcosa, un posto su di te. Quando venivi tu, temevi – a dispetto della biologia – che sarebbe stato questo a condannarti […]”.

In un mondo che invita all’ipocrisia, Ava sembra essere onesta con il suo sarcasmo pungente e inafferrabile ma, in realtà, mente continuamente: “Non era vero. Mentivo spesso per non offendere i sentimenti di qualcuno o piacergli. Gran parte della mia franchezza era incidentale. Ma ottenevo più credito sociale fingendo che lo facessi di proposito, se non altro perché così le persone pensavano che anche i miei complimenti fossero onesti” .

Ava si ritaglia un piccolo angolo per sentirsi speciale, non esaltando la sua virtù in modo costruttivo bensì deprecando contro se stessa, condannandosi alla chiusura e all’alienazione interiore in nome del suo essere speciale: “Lo fanno tutti, Ava. Continui a descriverti come una persona particolarmente disturbata, quando gran parte di queste cose sono normali. Credo che tu voglia sentirti speciale -ma va bene, chi non vuole esserlo-ma non ti concedi di essere speciale in modo buono, e allora ti consideri speciale in modo cattivo”.

Edith e Ava si innamorano profondamente in un crescendo di emozioni in cui l’orgoglio e la paura d’amare diventano le uniche costanti: “Mi sono sentita sul punto di abbandonare qualsiasi altra cosa facessi per provare a essere felice, e impiegare il resto della mia vita soltanto per trovare le cose che Edith aveva bisogno di sentirsi dire, e poi dirgliele”.

Edith e Julian sono due lampadine accese per Ava: intercambiabili ma necessarie. In un continuo gioco di alti e bassi i due occupano costantemente i pensieri della protagonista, lasciando il segno, fecondando le immagini indelebili di una storia vissuta durante tempi eccitanti: “Che tempi eccitanti per stare al mondo, su questo eravamo d’accordo tutti e due”.

L’ “eccitazione”, per Ava, non consiste altro che in un passaggio drastico dall’ Inferno al Paradiso e dal Paradiso all’Inferno.

Il senso di Thanatos che pervade la narrazione induce Ava a regalare un brivido alla propria vita e alla ricostruzione del proprio sé tramite gli archetipi primigeni ed eternamente vincenti: Edith e Julian.

L’apatia divora l’identità di Ava. La sua invidia sociale e il suo costante complesso di inferiorità sono sentimenti statici e stagnanti che sembrano ritrovare “eccitazione” e risvegliarsi soltanto in questo gioco d’amore e di potere: “Ero più silenziosa e più apertamente invidiosa adesso […]”.

Le app di messaggistica illuminano le retine dei protagonisti, Instagram diventa lo strumento della loro lotta alla supremazia in una partita infinita in cui non ci sono né vincitori né vinti ma solo esistenze vuote ed immateriali, nascoste nell’incomunicabilità e nel silenzio:

“Nel giro di poco tempo, è apparso il cerchio arcobaleno attorno al nome di  Edith; aveva appena messo un’altra foto. Non l’ho visualizzata. Mi è parsa una piccola vittoria”.

La paura d’amare prende il sopravvento, in un triangolo poliamoroso in cui i tre protagonisti sono l’uno lo specchio dell’altro, in un circuito sensoriale e ricco di tensione emotiva e sensuale.

Le parole non dette ricalcano le immagini e le fantasia di Ava, nutrono i film che abbracciano il suo cuore e il suo segreto.

Tempi eccitanti è una denuncia al poliamore, alle presenze/assenze, al ghosting e al breadcrumbing e agli specchi stereotipati di un mondo meccanico e superficiale.

Nella mente di Ava, gli occhi di Julian si fondono continuamente con gli occhi di Edith durante le sue giornate monotone divise tra un caffè ed una lezione di inglese:

“Passeggiando in mezzo alla folla, pensavo alle conclusioni che avrebbe tratto la gente vedendoci. Un uomo chiaro e alto con due donne basse dai capelli scuri. Due occidentali, un’asiatica. Non potevamo essere imparentati, ma eravamo troppo diversi per essere un giro scontato di amici”.

Tempi eccitanti mette in evidenza l’incomunicabilità, l’inquinamento dei sentimenti puri e la spersonalizzazione delle immagini di sé e degli altri a favore di un io sociale pronto all’uso, preconfezionato, vuoto.

La scrittura di Naoise Dolan è creativa, intelligente, vivace ed originale e coinvolge profondamente il lettore, scardinando per sempre il cuore e l’anima.

Ognuno di noi può ritrovare dei pezzi di sé in questa storia, può rivedersi nei protagonisti e sentire i loro sentimenti nella propria pelle.

In questo momento mi sembra di vedere Ava con le sue lentiggini, con il suo desiderio di essere amata e la sua personalità evitante, alla ricerca di Edith e Julian, due entità, a tratti  sovrannaturali, che la mantengono in vita in maniera illusoria mentre il disamore nei confronti di sé stessa cresce e viene confermato da questo rapporto segreto e poliamoroso:

“Avevo di sicuro del talento come attrice, altrimenti non avrei potuto essere la ragazza di Edith e la qualsiasi-diavolo-di-cosa-fossi di Julian contemporaneamente. La ragazza di Edith era onesta sui suoi sentimenti. La qualsiasi-diavolo-di-cosa-fossi di Julian faceva quel che diavolo faceva. Era come il dilemma sulle due porte e le due guardie, una che diceva la verità e l’altra che diceva il falso. E io avevo un privilegio di rado disponibile ai professionisti sul palco: potevo scegliere quale era il personaggio e quale era la vera me”.

Sogno di rincontrare Ava, magari in un sequel di Tempi eccitanti. La immagino in una stanza mentre si guarda allo specchio. Non c’è più Julian. Non c’è più Edith. Ava è con Ava.

Ava è completa e luminosa.

È una stella, un incentivo a ricercare una solidità assente, un respiro che si purifica dal disamore in nome dell’amore più puro e necessario: l’amore nei confronti delle immagini di sé per ritrovarsi interi e finalmente liberi di poter amare davvero, dolcemente.

Nessuna difesa, nessuna strategia, nessun inganno.

Solo amore puro… che scivola e che vibra.