Vincent di Tim Burton, stop motion e inno alla paura
«Vincent Malloy è un bravo bambino, ha sette anni ed è assai perbenino, per la sua età ha virtù assai rare, ma a Vincent Price vuol somigliare»
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Vincent, cortometraggio in stop motion prodotto dalla Walt Disney, è realizzato dal giovane Tim Burton nel 1982. Breve e didascalico, è un omaggio a Vincent Price, attore feticcio del regista, ma anche un divertente “manifesto” della poetica dell’autore di Burbank.
Un flauto malinconico attira un gatto, che segue il suono e ci porta nella casa di Vincen Malloy. Un bambino triste, dalla capigliatura autobiografica, che vuole somigliare a Vincent Price, famoso per Il corvo, tratto dal racconto di Edgar Allan Poe. Sono questi i primi elementi che ci presentano la psicologia del bozzetto burtoniano.
Il passaggio da Vincent Malloy a Vincent Price si esprime su più piani: psicologico e interiore, scenografico ed esterno, intellettivo e autoriale. La figura esile e depressa del bambino/Burton si trasforma improvvisamente in un Vincent Price stilizzato, che somiglia ad un dandy grottesco ed espressionista.
La voce narrante, che è proprio quella di Price, racconta il conflitto del bambino che vive in una casa circondato da gatti e un cane, con una sorella poco graziosa, una zia e la madre. I temi della filmografia di Tim Burton si espongono già in questi pochi minuti in stop motion, come: il rapporto intimo con il gotico, il senso di angoscia che invade i protagonisti, il mancato legame con la madre (a cui taglia l’immagine della testa), il conflitto con il sesso femminile (il turbolento destino che assegna alla zia), la castrazione ideologica legata all’assenza della figura maschile e paterna, il senso di colpa (citando il celebre racconto Il gatto nero), il simbolismo (il gatto che lo accompagna è metafora del suo legame atavico con Edgar Allan Poe), l’incapacità di comunicare all’altro, il cinema espressionista (scenografia deforme riflesso della sua interiorità, luce e ombra).
Vincent si può definire un inno alla paura, interpretata da Burton come la dimensione infantile, in cui sono sedimentati traumi e immaginazione. Fonte d’ispirazione, la paura è “bella”, perché risveglia l’inconscio, invade i sogni fino a diventare incubo. Un mondo circondato da mostri e strane creature, dalle forme specchio dell’anima, in cui nevrosi e terrore dominano la scena.
Tim Burton è cresciuto con il cinema horror, con i racconti del terrore, ha guardato la realtà con occhi gotici ed espressionisti. Il suo malessere interiore, l’ansia della vita, quel suo universo così prezioso e fragile, ha trasformato a lungo gli oggetti che l’hanno circondato in oggetti affettivi e icone. Il regista così emancipa se stesso esprimendo la sua personale visione della vita, proteggendola dagli altri, con cui non sa comunicare.
L’attrazione per la morte è un’altra costante del cinema di Burton; il legame con il genere horror e con Mario Bava, ma anche la morte come condizione di libertà dal pregiudizio terreno, luogo dove sentirsi uguale agli altri.
Il giudizio ferisce profondamente la sensibilità del giovane autore, ed l’impatto/scontro con l’altro che lo riduce alla depressione, al bisogno di rinchiudersi nella sua paura, quella che lo rende libero di sentirsi il mostro che gli altri vedono.
La madre infatti, continua a definirlo un bambino normale, dimostrandosi incapace di comprendere le debolezze del figlio e il suo primo conflitto con il mondo. Prigioniero nel corpo in cui non si riconosce, Tim Burton s’identifica nel mostro, nel gotico, nell’espressionismo, in Poe, in Vincent Price.
«L’anima mia da quell’ombra laggiù, non si solleverà mai più», citando Il corvo prima della sua espiazione metaforica, Tim Burton definisce così la sua poetica. Anima che nasce dall’ombra, cerca di risollevarsi, ma cade inesorabilmente nel vuoto, nel terrore, nel sogno, nell’immaginazione.
Il cinema di Tim Burton è anche paura, una filastrocca della paura dello stare al mondo.
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