5 Novembre 2019 - 13:38

ZONa Cinema: Strade Perdute e l’onirismo estremo lynchiano

Strade Perdute

Con Strade Perdute, David Lynch arriva al suo settimo lungometraggio. E lo fa agganciandosi a stilemi passati per dare slancio al cinema futuro

Un periodo di gestazione lungo, ma del resto, da uno dei maestri del cinema, ci si può aspettare solo qualcosa del genere. David Lynch, dopo la parentesi televisiva con cui ha creato e rivoluzionato l’intero impianto delle serie TV (Twin Peaks), si concede una pausa. Ben sei anni, infatti, passano tra il successo dell’impianto televisivo soprannaturale più famoso di tutti i tempi ad un nuovo film: Strade Perdute. Una sorta di nuovo inizio per il regista del Montana.

Un nuovo inizio che avvia una fase del tutto particolare del cinema di David Lynch, ovvero quella che porterà poi al suo ritiro dalle scene. Dopo aver dato prova delle sue eccelse qualità di scrittura anche in campi mai calcati finora (come il road movie in Cuore Selvaggio e l’horror soprannaturale in Twin Peaks e Fuoco Cammina Con Me), il regista si concede un ritorno alle origini. Ma fa ancora di più: riesce a coniugare le due metamorfosi del suo cinema e ad unirle in un tutt’uno, regalando qualcosa di completamente nuovo e anacronistico, soprattutto per il periodo che correva (il 1997).

Strade Perdute assume il significato di una nuova sfida, di tentare qualcosa mai fatto prima. Assistiamo, infatti, ad una sorta di noir paranormale che poi diventerà l’etichetta, il marchio di fabbrica per i suoi successivi lavori, ovvero il leggendario Mulholland Drive (che lo farà tornare sulle vette del cinema mondiale) e il criptico Inland Empire. Intanto, però, l’autore ci narra ancora una volta di una realtà torbida, sporca e cruenta come quella dei noir che lo hanno sempre contraddistinto. In più, abbina dei rompicapo in grado di far esplodere il cervello a chiunque.

Caliamoci nella realtà assurda del nuovo appuntamento di ZONa Cinema, dunque.

“Dick Laurent è morto”

Strade Perdute si apre proprio con questa frase ormai diventata iconica. Il protagonista del film, il jazzista Fred Madison (un ottimo Bill Pullman), rispondendo al citofono di casa sua sente proprio una voce misteriosa che gli comunica che Dick Laurent è morto. Tutto nella norma, se non fosse che il nostro non conosce minimamente il signor Dick Laurent (Robert Loggia).

Dopo questa criptica informazione, entriamo man mano nella vita del nostro protagonista, scoprendo che si tratta di un sassofonista di successo che si esibisce nei più importanti locali notturni di Los Angeles e di sua moglie Renee (Patricia Arquette). La loro quotidianità verrà stravolta da una serie di situazioni inquietanti, violente e a tratti paranormali.

La mattina dopo, Fred trova un’altra videocassetta fuori da casa sua. Sembra identica all’ultima ricevuta, ma questa volta Fred è ripreso sul pavimento della camera da letto accanto al corpo smembrato di Renee. Fred non capisce cosa stia accadendo e si ritrova in una stazione di polizia dove un detective lo sta picchiando, accusandolo di essere un assassino.

Viene incarcerato, ma la mattina successiva al suo posto compare un giovane di nome Pete Dayton (Balthazar Getty), meccanico del posto. La polizia è sbalordita, sconvolta e incerta su come abbia fatto Fred Madison ad evadere da una prigione di massima sicurezza e su come Pete Dayton sia finito nella sua cella. Rilasciandolo, due poliziotti lo pedinano fino alla sua officina, dove incrociano Mr. Eddy, un gangster del posto, di cui gode di una spiccata simpatia. Peccato che gli agenti lo riconoscano con un altro nome: Dick Laurent.

Questo è l’incipit di un labirinto dai risvolti incredibili, la cui unica via d’uscita sarà quella di “tornare alla fonte“.

Il sogno

Come già detto, Strade Perdute rappresenta l’inizio di una nuova poetica lynchiana maggiormente incentrata sull’onirismo. Il film si muove su strade parallele che al contempo si incrociano, fino a formare una sorta di nastro di Moebius dove la fine coincide con l’inizio. L’universo parallelo in cui si infila Madison non ha uscite né strade secondarie. Ha solamente una via, una strada che gli permette di cancellare dalla propria mente quanto commesso (in questo caso, un omicidio) rinchiudendosi in un labirinto mentale che ha come sola via d’uscita l’accettazione.

Qui Lynch prende gli stilemi del noir anni ’50 (quello da lui amato, sulla scia di Billy Wilder e Jacques Tati) e lo fonde con un altro dei suoi “cavalli di battaglia”, ovvero quel surrealismo che sa tanto di omaggio al mitico Fellini e con un leggero richiamo anche al cinema estremo degli snuff movies (lo stratagemma delle cassette). Il tutto mettendo in scena un film dal sapore sociale e critico, soprattutto nei confronti della borghesia statunitense, sulla scia di Velluto Blu. Los Angeles diventa la “città del doppio”, del contrasto, delle illusioni e delle luci alternate alle ombre.

La regia diventa lenta, psichedelica, atta a farci perdere nel mondo “nero” di questo viaggio immaginario. Una sorta di insieme di immagini in movimento atti a raccontare una storia. E Lynch lo fa con una messinscena incredibile, con una fotografia sublime e con una colonna sonora perfetta, che va dai Nine Inch Nails al fido Badalamenti.

Ottime anche le interpretazioni di Patricia Arquette, adatta nel ruolo della “femme-fatale” e di un enigmatico Robert Loggia, che suscita inquietudine negli spettatori solo con il suo sguardo.

La catarsi e l’irregolarità

Strade Perdute è un film difficile da comprendere. Proprio questo è il maggior difetto (che può trasformarsi in pregio) della pellicola. Il dedalo di cunicoli che rappresentano le vicende del film resta davvero stretto, ed è davvero difficile arrivare alla fine del film senza avere quantomeno un cenno di perplessità.

Lo stile di narrazione scomposto, non lineare, arzigogolato, dà lo spazio più all’immaginazione e all’interpretazione dello spettatore che nemmeno alla trama in sé. Le “strade perdute” del film si trasformano in uno stato mentale, dove l’unico modo per “sopravvivere” alla visione è quello di abbandonarsi tranquillamente a lei, senza battere ciglio.

Più che un film, una vera e propria esperienza sensoriale. Lynch, ancora una volta, è riuscito a stupire e sconvolgere gli spettatori. Una vera e propria avvisaglia per i due film più criptici ed estremi della sua filmografia: Mulholland Drive e Inland Empire.