16 Febbraio 2018 - 10:41

Altered Carbon: il cyberpunk visto dalla prospettiva di Netflix

Altered Carbon

Altered Carbon: la recensione del primo esperimento post-cyberpunk targato Netflix, tra un futuro inquietante e atmosfere noir alla Blade Runner

Il boom della fantascienza è tornato, nemmeno fossimo negli anni ’80. Ultimamente, grazie all’opera di validi registi e alla “redenzione” di colossi come Netflix e Amazon Prime, il pubblico sta riscoprendo tutto il piacere di un genere che all’inizio di questo nuovo millennio era stato accantonato.

Opere e serie TV di fantascienza come Stranger Things, Dark, Black Mirror, Sense8, Star Trek: Discovery ed Electric Dreams hanno contribuito a ravvivare il panorama che più stimola il cervello umano, preso a fantasticare su temi futuristici o apocalittici come realtà virtuali e minacce aliene. Ma Altered Carbon è diversa.

Netflix ha finalmente smosso le acque e portato alla luce un sottogenere “di nicchia”, quale il post-cyberpunk. Altered Carbon, creata da Laeta Kalogridis (Alexander, Shutter Island, Avatar), è tratta dall’omonimo romanzo di Richard Morgan, conosciuto in Italia con il nome di Bay City. Morgan riprende pienamente le caratteristiche fondamentali del genere, costruendo una storia notevole sia per mole che per impatto effettivo.

La sopravvivenza a Bay City

In Altered Carbon ci troviamo nella San Francisco dell’anno 2384, ora chiamata Bay City. Clonazione ed intelligenze artificiali sono parte integrante del quotidiano, ma ad arricchire il tutto si pone una nuova rivoluzionaria tecnologia che dona l’immortalità agli esseri umani. Alla base di essa vi è il trasferimento della propria anima da un corpo all’altro. Come? Immagazzinando la propria coscienza su dischi scaricabili (le cosiddette “pile corticali”) che possono essere trasferiti in un nuovo corpo, una nuova “custodia”.

Ovviamente, tutto ciò ha un costo. E non tutti se lo possono permettere. Dunque si è instaurato un enorme squilibrio nel sistema. Una separazione tra ricchi e poveri ancora più netta, con i cosiddetti Mat (diminutivo di Matusalemme) che hanno raggiunto lo stato di immortalità eterna.

La storia di Altered Carbon parte proprio da un Mat, e dal suo omicidio. Il potentissimo Laurens Bancroft (interpretato da James Purefoy), infatti, comincia ad indagare sulla sua morte, di cui non ricorda nulla. Per farsi aiutare nelle indagini, risveglia Takeshi Kovacs, ex membro ribelle delle unità speciali (Spedi) rimasto congelato per oltre 250 anni. Kovacs viene inserito nel corpo di Elias Ryker (interpretato da un Joel Kinnaman in grande spolvero), agente di polizia dal passato controverso. Da qui, lo Spedi comincia una lunga trafila che lo condurrà nelle più torbide macchinazioni della città, in cerca di verità nascoste. Kovacs/Ryker entrerà in contatto con Kristin Ortega (Martha Higareda), ispettrice di polizia oscuramente legata alle vicende, con cui svilupperà un rapporto controverso.

L’eterno ritorno del cyberpunk

Altered Carbon, a primo impatto, sembra essere molto complessa, ma godibile. Merito di una trama articolata che mescola più generi (cyberpunk, fantascienza noir, poliziesco ed action) e mantiene sempre alta l’attenzione. I ritmi narrativi risultano, nella maggior parte, molto freschi e attivi, basandosi su continui colpi di scena e ottime side-story.

Sebbene si denotino comunque varie differenze con il libro originale di Morgan (che risulta semplificato, adattato forse per manovre di marketing), la storia mantiene intatto il suo stile hard-boiled, risultando intrigante e stimolando lo spettatore a voler sapere di più sulle vicende di Bay City. Altro merito è quello di coniugare alla storia un impianto visivo a dir poco fenomenale, una gioia per gli occhi. Le ambientazioni che si susseguono nella serie sono davvero mozzafiato, descrivendo perfettamente un universo futuristico ricco di suggestioni e ambiguità morali.

Altered Carbon si propone, quindi, come un luogo di “perdizione”, immorale, corrotto, dove ad essere in risalto sono i bassifondi delle città (in pieno stile Blade Runner) e i luoghi aristocratici. Entrambi gli ambienti sono contagiati dallo stesso virus: la decadenza. Il tutto avviene senza perdere il bellissimo contrasto tra purezza e “sporcizia” (si pensi alla dimora di Laurens Bancroft, archetipo della purezza, e al Raven Hotel, alla violenza e all’amore carnale di alcune scene, punti di riferimento della vita suburbana di Bay City).

Menzione d’onore per Joel Kinnaman e James Purefoy, che costituiscono una coppia sopraffina all’interno della narrazione e si sono rivelati ottime scelte per il cast.

Tutto fumo e niente arrosto?

Nonostante un impianto davvero notevole, Altered Carbon ha comunque le sue pecche. E la principale è quella della semplificazione della trama. Stiamo parlando di una serie il cui punto focale è l’estetica. Ma la sensazione nel guardare la serie è che non tutto funzioni in maniera precisa, che a tratti gli episodi si perdano di più nel coinvolgere lo spettatore a fantasticare sul possibile futuro, che nel fargli seguire la storia effettiva. E ciò va a discapito della storyline: non ogni episodio è ugualmente avvincente.

Inoltre, talvolta si riscontra una prolissità quasi disarmante nei dialoghi, che perdono di incisività col passare del tempo. La dose di solennità nella serie talvolta è eccessiva, anche per gli stessi Mat, i quali assumono nella storia il ruolo di veri e propri “dei umani”. Ciò viene certamente compensato con un’ottima componente action, ma l’impressione primaria rimane costante.

Certo, il senso della serie permane, in sottofondo. E sicuramente le storie cyberpunk si nutrono di dialoghi solenni. Ma la sensazione, a tratti, è che tutto appaia molto più lineare di quanto non dovrebbe, per i canoni del genere. Forse tutto ciò è dovuto al commercializzare il prodotto e nel farlo diventare quanto di più fruibile nella mente dello spettatore. Sebbene ricca di colpi di scena, la trama talvolta si perde nella piattezza, quasi a far rassegnare chi aspetta qualcosa in stile Mr. Robot (altra serie di punta del genere).

Conclusioni

Altered Carbon si può considerare un esperimento riuscito, per la maggior parte. È una serie decisamente atipica, specie per un catalogo “blindato” come quello di Netflix, che mira di più al lato commerciale. Si tratta di un prodotto coraggioso, con una componente visiva impressionante ed idee concettuali di base stranianti, ben riuscite e sviluppate in maniera coinvolgente.

In qualche modo, però, essa rimane prigioniera (a tratti) della piattezza, che non permette alla serie di esprimere a pieno il proprio potenziale stratosferico. A volte la serie si perde in troppe prolissità, che la fanno apparire troppo lineare agli occhi dello spettatore, rimanendo in parte vittima delle sue stesse ambizioni.

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