26 Gennaio 2015 - 11:28

Una rosa sul filo spinato di Auschwitz-Birkenau

rosa

Il diario di una giornata ad Auschwitz-Birkenau, nella giornata della Memoria. E quella rosa che è un simbolo di pietà, di commozione per l’umana sofferenza, che fa ancora sperare

Auschwitz- Birkenau. Arrivo davanti ai cancelli, dove campeggia la scritta ARBEIT MACHT FREI – IL LAVORO RENDE LIBERI. La guida, in un italiano dallo spiccato accento slavo, ci spiega che quello è un messaggio denigratorio, quasi sarcastico: far credere agli ebrei che sono lì per lavorare.

Mi guardo intorno: un deserto di mattoni e reti divisorie, rivoli di strade ormai immerse nel silenzio. Un brivido, il primo di questa giornata. Intorno a me palazzi oscuri, dove si conducevano esperimenti sui prigionieri, in particolare su donne e coppie di gemelli.

La quiete spettrale di quel luogo è quasi innaturale. Io e altri turisti entriamo nel Museo (degli orrori) di Auschwitz Birkenau. La guida comincia a spiegare ciò che stiamo vedendo: pannelli di foto in bianco e nero di treni carichi, mariti divisi da mogli, intere famiglie smembrate. Molti di loro non si rivedranno mai più.

Una di queste mi fa più impressione: una SS con un detenuto appena uscito dal vagone, di fronte ad un bivio, il suo pollice verso destra: il lato delle camere a gas. La guida ci spiega che spesso in quel modo si decideva della vita di un uomo.

Altro giro altra corsa. Un’altra sala in cui le teche contengono gli averi dei deportati. Tutti gli oggetti che una volta erano considerati utili e preziosi – come occhiali, scarpe, arnesi da lavoro – venivano sequestrati.

Oppure vi erano quelli di uso quotidiano nel campo, come barattoli per le minestre, divise da lavoro e persino un telo sacro che veniva utilizzato dai rabbini per pregare. Ma il dettaglio più raccapricciante è quello di una enorme teca in cui sono ammassati capelli di donne.

Chiome increspate ancora pigmentate, oppure lanuggine scialba e canuta. Li usavano, ci dice la guida, per imbottire cuscini e materassi. Un po’ più in là persino abitini, scarpine e cuffiette da bambino. Eccolo, il secondo brivido.

Usciti da questo stabile veniamo condotti nel terribile Blocco 11, il Blocco della Morte. Anguste celle e angoli adibiti alle torture di qualsiasi tipo, dalle privazioni di sonno alle violenze fisiche, oltre ai famosi cameroni fatti di paglia e pietra.

Ad accompagnarci lungo il cammino, i ritratti delle tante vittime, in una sorta di galleria. Tra questi non solo ebrei, ma zingari, ostaggi politici, comunisti, omosessuali. Tutti ben identificati dai triangoli cuciti sul petto.

Mi sento osservata dai morti, è una sensazione terrificante. Ma questo è niente al confronto di ciò che avrei visto dopo: siamo entrati in una camera a gas. La guida ci spiega in breve il meccanismo: i prigionieri venivano stipati dentro e la camera veniva  sigillata. Dall’alto di un comignolo, un militare gettava all’interno dei piccoli sassolini, ovvero del veleno, che evaporavano.

In tal modo, si faceva una “pulizia” rapida. Si sente ancora il miasma esalare dal pavimento di pietra: è agghiacciante. Come lo è il Muro della Morte: una parete in un cortile dove si facevano vere e proprie esecuzioni. Oggi è uno stuolo di lumini e fiori.

Il secondo cimitero da visitare è Birkenau. Se Auschwitz è stato definito ironicamente “campo di lavoro”, Birkenau era semplicemente un campo di sterminio, un satellite in cui venivano smistati e uccisi i deportati immediatamente.

Qui c’è il nulla assoluto. Una distesa verdeggiante e solitaria, alla quale si accede attraverso gallerie di binari e vagoni. Il freddo è cattivo, mi aggredisce, e le torrette dei soldati tedeschi svettano come giganti in mezzo al grigiore della tristezza e della giornata.

Un’ esperienza intensa e profonda. Talvolta, fa bene misurarsi con l’orrore umano, per capire fin dove arrivi. Attraverso il ricordo del mondo, le anime di milioni di innocenti possano ritrovare quel valore che era stato loro negato.

Camminando in mezzo al nulla di Auschwitz-Birkenau, su un filo spinato vedo una rosa rossa, bellissima e inusuale, lasciata da qualcuno che è stato commosso dalla sofferenza. Un simbolo di speranza dentro una tragedia, che parla più di queste parole.