10 Settembre 2018 - 10:33

Cherofobia, quando la felicità fa paura

cherofobia

Un termine particolare, un disturbo poco noto ma, forse, abbastanza diffuso: la cherofobia. La paura del dolore che si trasforma in paura di essere felici

La mente umana ha infinite sfaccettature ed è impossibile conoscerle ed interpretarle tutte. Ogni individuo può riferire alcuni disturbi o malesseri non facilmente classificabili all’interno di un contesto più ampio. Ogni individuo, al contrario, può avere un “classico disturbo” ma che ha origini e cause ben diverse e soggettive. La cherofobia potrebbe classificarsi tra quei disturbi non molto noti, ma non per questo poco diffusi, e che potrebbe essere ricondotta agli stati d’ansia.

Cos’è la cherofobia

Per comprendere il significato del termine, bisogna ricorrere all’origine greca del nome. Il termine χαίρω (chairo), significa letteralmente “mi rallegrogioisco”. Da qui è facile comprendere come questo disturbo indichi la paura di essere felici, di gioire. Capire in che modo ciò accade è, come nella maggior parte dei problemi psicologici, molto complesso. Un trauma infantile, un’inconscia associazione nei primi anni di vita tra felicità e punizione potrebbe aver scatenato questo genere di spiacevoli sensazioni.

Ma la cherofobia è anche qualcosa in più. La paura della felicità è innanzitutto l’esatto opposto. Si tratta infatti del timore di soffrire, di provare dolore e per questo chi ne soffre tende ad evitare anche le esperienze positive per paura che queste possano cessare, causando sofferenza. Si prova ansia nel partecipare ad eventi sociali, nell’affrontare nuove esperienze e nel produrre, in ogni senso, qualcosa di buono. L’evitamento di queste situazioni può portare ad una fobia sociale forte e persistente, che può compromettere ogni aspetto della vita di chi ne soffre.

Esistono vari gradi di cherofobia. Nei casi più gravi, una terapia cognitivo comportamentale può essere d’aiuto per trovare la causa prima del disturbo d’ansia. Mentre nei casi più lievi, il soggetto riesce a “non pensarci” e a superare (o a convivere?) con i propri mostri.

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